Alice Figini
pubblicato 5 anni fa in Recensioni

Lux di Eleonora Marangoni

il fascino delle cose perdute

Lux di Eleonora Marangoni

Lasciamo la nostra anima nei luoghi che abbiamo attraversato, e non ce ne rendiamo conto. La nostra vita è movimento continuo, eppure si nutre anche di un certo numero di stasi.

È questo il presupposto su cui si basa Lux (Neri Pozza, 2018), libro d’esordio della giovane Eleonora Marangoni. Avete mai considerato il fascino delle cose perdute che tuttavia ancora ci appartengono? Ce le trasciniamo addosso nella fretta della quotidianità come una zavorra, talvolta ingombrano ancora il fondo dei nostri cassetti, i ripiani alti degli armadi, ma per la maggior parte vivono soltanto nella nostra testa. Sono gli amabili resti delle nostre vite ancora in itinere, i «cimeli di un amore finito o mai ricambiato, rimasugli di qualcuno che non c’è più, relitti di sentimenti e persone che abbiamo lasciato scivolare via» tutto quanto ritroverete tra le stanze dell’Hotel Zelda, la mirabile invenzione evocata dalle pagine di Lux, dense di un’inesauribile poeticità.

Il titolo originale del manoscritto era «Lux o come farla finita con il passato», ma è stato abbreviato nel più enigmatico ed efficace Lux che, del resto, anticipa perfettamente il contenuto ibrido e inafferrabile di questo romanzo, così simile al bagliore di una luce retrospettiva, malinconica. Vincitore del Premio Neri Pozza 2019, Lux ha mancato per un soffio la cinquina dello Strega, tuttavia ha attirato comunque su di sé una discreta attenzione da parte della critica che ha già consacrato la sua autrice.

Lo hanno definito «un libro di altri di tempi» e non a torto: leggendo queste pagine si è trascinati in un’altra epoca, in un mondo parallelo, e di tanto in tanto ci si sorprende quando nella storia fa la sua apparizione qualche oggetto contemporaneo come un cellulare o una connessione Wi-Fi ricordandoci che siamo nel presente, nel modernissimo e tecnologico ventunesimo secolo. Stupisce e affascina ritrovare ancora uno stile così ricercato, sovrabbondante nell’aggettivazione e impregnato di classicità. La costruzione della frase è antica: un periodare lungo e articolato capace di avvolgere il lettore in un’intricata rete semantica. Per gli amanti della letteratura Lux sarà senz’altro una piacevole sorpresa.

I critici sostengono che la classicità dello stile la Marangoni la debba ai suoi studi su Proust, e di certo un’influenza si sente, entrambi riescono a suscitare, attraverso le parole, un impalpabile sentimento di malinconia.

Ma  Eleonora Marangoni non è Proust, e questo non lo sostengo affatto in senso riduttivo: l’autrice è riuscita a trovare uno stile tutto suo, una certa originalità, che la svincola dal suo modello. Si possono senza dubbio trovare echi proustiani in Lux, ma la narrazione ha il pregio imprescindibile di unire a un periodare classico una vicenda contemporanea, fresca e vivace, impregnata di autenticità e anche di un certo realismo magico. Il libro è stato pubblicizzato come «l’opera scritta da una proustiana italiana», ma forse dovrebbe liberarsi di quella etichetta per essere compreso veramente nella sua unicità. È una peculiarità che si comprende col tempo, quando dopo averlo terminato da mesi certe frasi, certe atmosfere ancora ti restano nella testa. E se una storia ha la capacità di fermentare così bene dentro di noi, allora è un’ottima storia. 

Lux non è un libro per tutti.  Non è certamente il libro adatto per chi vuole leggere la classica narrazione dotata di incipit, svolgimento e finale. Non è la trama l’elemento predominante, malgrado l’inizio del romanzo lasci presagire un proposito simile: il rampollo di buona famiglia che improvvisamente scopre di aver ereditato un’isola deserta da un vecchio zio (il perfetto stereotipo dello Zio d’America inquieto, girovago e ricco) segue, però, uno sviluppo tutt’altro che prevedibile.

Il fascino di Lux risiede proprio nel suo mistero, che si rivela a poco a poco. Per gran parte della narrazione ti ritrovi a domandarti cosa succederà, dove voglia arrivare l’autrice, continui a lambiccarti il cervello su possibili retroscena ed enigmi da sbrogliare e intanto continui a leggere, sollecitato da uno stile ammaliante che ti culla come un bimbo. Poi arrivi alla fine e capisci tutto, capisci che in fondo non c’era niente da capire, che ti sei affannato inutilmente, che ciò che il libro voleva dirti te l’ha detto mentre tu ti intestardivi a cercarne il senso. Siamo troppo abituati alla superficialità, al nero su bianco, ai dialoghi didascalici e privi di sottointesi. Non siamo più capaci di scavare nella profondità tra le cose, di apprezzare il “tra le righe”.

Mano a mano che proseguivo nella lettura mi accorgevo che le parole seguivano lo stesso flusso impalpabile e misterioso dei pensieri. È un romanzo che assomiglia ad un viaggio, leggendolo si ha l’impressione di trovarsi nella casa degli specchi di un Luna Park. L’isola misteriosa a cui approda il protagonista è un luogo dove nulla è come appare, e tutto ciò che i personaggi fanno è raccontare le loro storie che si snocciolano una dopo l’altra per frammenti, simili a bagliori di luce perfetta.

Eleonora Marangoni ha creato molto più di un personaggio, ha creato un luogo, l’Hotel Zelda, che esiste in bilico tra il reale e l’immaginario come la mitica isola di Arturo della Morante. Un luogo dove è possibile custodire il passato e così riuscire finalmente a «lasciarlo andare». Del resto lei ce lo dice fin dal principio: «l’Hotel Zelda non è un luogo, piuttosto il ricordo di un luogo» e «le sue stanze sono desideri realizzati» l’evocazione dell’interiorità è la vera linea guida della narrazione. I personaggi fanno i conti con il passato attraverso oggetti che sembrano racchiudere l’entità del tempo trascorso; e queste cianfrusaglie impolverate tutte assieme compongono un irripetibile giro di vite.

L’autrice ha affermato che il suo proposito fosse per l’appunto quello di far vivere «l’aurea delle cose»; ed è, in effetti, proprio questo sentimento che avvolge il lettore a lettura conclusa. La sensazione di aver toccato un’entità inafferrabile, di essere riusciti per un attimo ad arrestare il flusso continuo del tempo. Eleonora Marangoni è riuscita a dare vita all’anima intrinseca delle cose. Grazie alle sue parole capiamo che una stanza non è la stessa se è vuota o affollata, che un raggio di luce radente può conferire un significato diverso a una situazione, che un vecchio giradischi non funzionante è in grado di narrarci la più bella storia d’amore. Si termina la lettura con un senso di sopraffazione: qualcuno – si nota stupefatti- è riuscito a raccontare tutto questo, a svelare l’anima segreta delle cose, ed è sublime e commuovente allo stesso tempo. 

E poi c’è l’altro filo della narrazione, che in realtà si dissolve nella parte centrale del romanzo per poi riemergere nelle pagine finali: la storia d’amore tra Thomas e Sophie. Una storia a tutti gli effetti finita; ma che in realtà continua a vivere attraverso un riverbero di segrete assonanze. 

L’assenza di Sophie era il contrario di un vuoto; era qualcosa di tangibile, che nasceva di continuo e cambiava forma, una presenza viva che gli era cresciuta addosso e si comportava come voleva.

A lungo è la volontà di sapere dove sia finita Sophie a indurci a proseguire nella lettura, almeno finché non ci rendiamo conto che quello che l’autrice intende svelarci è in realtà un’altra cosa. Alla fine troviamo Sophie e ci rendiamo conto che non è mai stata la sua figura il perno del romanzo, nonostante vi apparisse come un fantasma ricorrente. È un altro dei pregi di Lux: la capacità di narrarci una storia d’amore anomala che si sviluppa attraverso gli estremi del tempo e dell’attesa. Nel corso della storia assistiamo ad atti d’amore effettivi, molto più eclatanti, del sottile e quasi intangibile legame che ormai lega Thomas e Sophie; eppure è proprio la forza di questo amore finito, visto in retrospettiva, ciò che alla fine ricordiamo davvero e che appare più forte di ogni cosa reale.

Solo un libro può farci percepire la tenacia di un sentimento che ancora sopravvive tra due persone lontane, eppure unite da imperscrutabili assonanze. E a romanzo concluso questa consapevolezza ci colpisce con una certezza struggente, simile a una punta di spillo. Sono ancora una volta gli oggetti a unire i due personaggi, l’unico evanescente punto di contatto in grado di collegare due mondi troppo lontani e non comunicanti tra loro. Le ultime righe riescono a dare corpo a un’intuizione, a un presentimento, e ci colpiscono come la luce che filtra tra le persiane socchiuse, ricordandoci i mille file invisibili in grado di legarci alle persone.    

Cerchiamo nei libri quello che non capiamo della vita, e nella vita quello che leggiamo nei libri.

Come un quadro di Turner, Lux riesce a restituirci l’effetto della «luce dopo la pioggia», la malinconia retrospettiva che ci accompagna inevitabilmente mentre ci dirigiamo verso la vecchiaia e le cose dietro di noi si accumulano. È la mirabile costruzione di un luogo letterario, l’Hotel Zelda, che ci permette infine di comprendere appieno l’importanza delle cose perdute.  

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