Magia, superstizione e religione nella Grecia tardo-antica
Vigrino e la moglie sventurata
La parola “magia” entrò a far parte del vocabolario greco in seguito ai contatti con la Persia: da principio, secondo la religione zoroastriana, il mago era un sacerdote esperto in pratiche taumaturgiche e astrologiche; Erodoto, in particolare, (Storie I, 101) informa che i maghi appartenevano ad una società segreta deputata a svolgere, per conto del re, riti funebri, divinazione e profezie.
In Grecia, tuttavia, la parola “mago” assunse una connotazione negativa, a metà fra quella di mendicante e indovino, benché, anche lì, fin dalle epoche più antiche esistessero persone dedite a compiere incantesimi per gli scopi più disparati: libertà dal malocchio, fatture d’amore ed esorcismi.
All’atto pratico si trattava di “lamentatori” che, attraverso i propri gemiti, si occupavano di cacciare gli spiriti o placare i presunti fantasmi. Nonostante questa superficiale diffidenza, la cultura greca fu in buona misura permeata dalla magia, fin dalle forme sociali primitive ad arrivare all’epoca tardo-antica e poi bizantina. Collocare la cultura magica entro i confini storici di queste epoche significa metterle inevitabilmente in relazione con il contesto culturale ma ancora religioso delle stesse, portando inevitabilmente alla luce quesiti di una certa importanza: quale motivo spinge l’uomo a credere in qualcosa che va in direzione opposta all’esperienza?
Che rapporto intercorre tra magia e altri aspetti del soprannaturale?
Le questioni sono a tutt’oggi aperte e annose: James Frazer riteneva, a suo tempo, che magia e religione fossero due ambiti culturali ben distinti. Mentre la prima, mediante la figura dello stregone, operava una sottomissione degli spiriti, la seconda portava l’essere umano a credere che vi fossero delle forze soprannaturali tali da essere venerate e a cui sottomettersi. La magia, inoltre, costituiva, secondo Frazer, il prodotto di una mente pronta a piegarsi a leggi fallaci e provvisorie e ne esistevano due forme primigenie: “di contatto” e di “similarità”. La prima riguardava l’azione sull’oggetto che aveva causato il male o la ferita della parte lesa, ovvero di chi si recava dallo stregone per trovare sollievo dai propri accidenti, mentre la seconda implicava l’utilizzo di fantocci che ricordassero nell’aspetto la persona che si voleva colpire.
Al contrario, Marcel Mauss, riteneva che il divario fra i due ambiti non fosse così netto, dal momento che riteneva vi fossero, in molte religioni storiche, elementi di derivazione magica. La magia si configurava non più come espressione della cultura di un’élite ristretta, bensì come un fenomeno sociale che godeva di largo consenso e basato su un sistema di credenze collettivo e condiviso. Compiendo un salto temporale di secoli rispetto alle società primitive, si potrebbe individuare il sistema di valori condivisi in quello cristiano di epoca tardo-antica. Occorre partire dal presupposto che, in generale, la magia rivestiva una vera e propria funzione consolatoria, la cui persistenza risulta affascinante se si considera in rapporto al contesto religioso proclamatamente crisitano. Tale funzione, così come la magia stessa, aveva a tal punto permeato la cultura dell’epoca da comparire anche in parte della produzione agiografica; cosa che accade, con un risvolto curioso e inaspettato, nella “Vita di Sant’Andrea salos” (cioè il folle), di Niceforo, prete di Santa Sofia.
Egli riporta la vicenda di una donna, casta e timorata di Dio, sposata ad un uomo dedito unicamente ai piaceri terreni, la quale si rivolge ad un mago, Vigrino, per migliorare il comportamento del marito. Il fattucchiere propone alla donna diverse soluzioni e, una volta decisa la migliore, le ordina di predisporre un lume, olio, stoppino e fusto, una cintura e un braciere; in seguito si reca a casa della donna e comincia la pratica magica: pone lo stoppino dinnanzi alle icone; incanta una cintura e prescrive alla malcapitata di cingersene insieme alla propria veste. A seguito dell’incantesimo il marito comincia a detestare le esecrabili azioni compiute in precedenza, dedicandosi, invece, ad una vita onesta. Ogni cosa sembra dunque andare per il meglio; tuttavia la donna, nell’arco di sei giorni, comincia a vedere i propri sonni agitati da strani incubi. In primo luogo le compare in sogno un vecchio etiope (si ricordi che in Grecia l’aithiops è l’immagine demoniaca per eccellenza), che tenta di stringerla, baciarla e possederla nonostante le sue rimostranze. Comprende, soltanto una volta sveglia, che quello è il demonio. Nel secondo sogno appare un grande cane nero che la bacia sulle labbra al modo di un essere umano, il quale le fornisce la conferma che è stata posseduta dal diavolo.
I sogni si protraggono per alcune notti, finché la donna, disperata, comincia a dedicarsi a preghiere e digiuni per liberarsi dell’orrore del maligno. Un giovinetto, un angelo del Signore, in realtà, le compare allora in sogno e le mostra il motivo di tali scellerate visioni: il mago, Vigrino, è uno stregone che pratica magia nera; ha ricoperto le icone della donna di sterco umano, il lume con urina di cane e nel fusto ha scritto il nome dell’Anticristo. Appena sveglia, la donna si precipita presso un vicino di casa giovane e virtuoso, Epifanio, che le consiglia di dare alle fiamme la cinta e di sottoporgli le icone, così che egli possa riscattarle attraverso la propria preghiera. In seguito la donna cade in un sonno profondo e, questa volta, in sogno vede un etiope che arde vivo e che minaccia di vendicarsi del virtuoso Epifanio. Durante la notte quest’ultimo subisce tremende torture e tormenti senza mai ritrarsi e riesce infine a sconfiggere la folla di demoni e diavoli recitando il salmo IX. La vicenda si conclude con il giovane Epifanio che si reca dal Beato Andrea salos, suo padre spirituale, per ottenere la spiegazione dei simboli e dell’operato del demonio.
Il racconto appena enunciato è l’emblema dell’atteggiamento di condanna delle pratiche magiche da parte delle autorità ecclesiastiche del V secolo d.C., ma fornisce anche un esempio della pratica diffusa fra molti individui all’epoca, di fingersi guaritori ortodossi. In effetti “la legatura”, la pratica con cui il demonio induce la donna a cingersi con la cinta maledetta, sembra un buon tentativo di soluzione del problema, ma, d’improvviso, il demonio metamorfico comincia ad impossessarsi di lei. È solo grazie all’angelo che riesce infine a comprendere di essere vittima di un vero e proprio matrimonio con il diavolo, cui, per fortuna della malcapitata, si possono infliggere tormenti e torture per scacciarlo. In ragione di questi elementi, si può senza dubbio ravvisare nel racconto un’impostazione fiabesca: vi sono due protagonisti, moglie e marito, due aiutanti, Sant’Andrea salos ed Epifanio ed un antagonista, cioè lo stregone. Tale struttura assume un carattere sistematico anche qualora la si consideri in relazione al contesto religioso ed è, in conclusione, la conferma del fatto che, in epoca tardo antica, testimonianze cristiane e pagane si giustapponevano e coesistevano interferendo, sistematicamente, l’una con l’altra.
Sulla base di questo si può dire infine che, per ciò che concerne l’epoca tardo-antica, è necessario accettare la posizione di Marcel Mauss, che tende a conciliare la sfera religiosa e quella magica pur riconoscendo l’indipendenza, in alcuni casi, dell’una rispetto all’altra.