Moda, fotografia e morte: omaggio a Peter Lindbergh
Cenere alla cenere. Polvere alla polvere. Moda e morte, legate indissolubilmente da anni e anni di discussioni di critici e teorici del fashion, purtroppo si sono date un appuntamento che gli amanti della fotografia e della moda non avrebbero mai desiderato. Lo scorso ventiquattro settembre, infatti, si sono svolti i funerali del tedesco Peter Lindbergh, morto all’età di 74 anni, agli inizi dello stesso mese. Se il nome non vi dicesse nulla, Peter Lindbergh è stato il fotografo di moda degli anni Novanta e del Duemila, capace di catturare con grande passione, talento e profondità non solo quelle femminilità che hanno riempito le lunghe e strette passerelle di moda di tutto il mondo ma anche i volti di quelle che sono diventate icone del cinema e della musica americana. In vita, si circondò di tutte le diverse femminilità immaginabili, in morte tutte queste si sono riunite nella Chiesa di Saint-Sulpice a Parigi, per salutarlo un’ultima volta.
Il lavoro del fotografo interessa lo sguardo: egli deve saper vedere, cogliere la realtà nelle sue invisibili sottigliezze. Il grande Lindbergh era infatti capace di irrompere, con la delicatezza di una posa e di uno scatto, nel vissuto delle donne che egli amava incorniciare sia in esperienze di gioia quotidiana, mentre giocano in spiaggia, sorridendo, vestite in lunghe camicie bianche da uomo, sia in esperienze fuori dal comune, capaci di mettere alla prova persino le leggi della fisica, come nel caso delle fotografie scattate alla grandissima diva e cantante Tina Turner, intenta a scalare la Tour Eiffel con un paio di tacchi e un leggero vestitino retto su da sottili bretelline. Lindbergh giocava anche con la sessualità delle sue modelle: fotografò i volti dell’attrice inglese Charlotte Rampling negli anni Ottanta e della modella Kate Moss negli anni Duemila.
Donne trasformate in creature androgine, grazie ai loro capelli corti all’indietro, ai loro zigomi pronunciati ma anche grazie alle mani che, nel primo caso, sono occupate a coprire il seno non con imbarazzo ma con forte erotismo; nel secondo, le mani sono intente a portare alle labbra carnose una sigaretta quasi finita, con un gesto di prepotente sfida femminile. Le donne di Lindbergh fanno ciò che desiderano, sono sicure di loro, iconiche e, allo stesso tempo, posseggono una delicatezza quotidiana, come quella dello sguardo di Penelope Cruz o di quello sospeso e riflessivo dell’attrice svedese Alicia Vikander.
Ciò che accomuna tutte le sue fotografie è la sua devozione al bianco e nero assieme alla capacità di studiare, capire, comprendere e dominare la luce, da qualsiasi fonte provenisse. A questi dettagli si aggiunge l’amore per la bellezza naturale dei volti che sceglieva di immortalare: nonostante avesse cavalcato proprio quell’onda digitale caratteristica del XXI secolo, il fotografo non faceva uso di ritocco, preferiva infatti lavorare con estrema pazienza e fervido zelo all’immagine fotografica, come nel caso del calendario Pirelli del 2017, dal titolo Emotional, in cui l’obiettivo, come sottolineato dallo stesso Lindbergh, «non [è orientato] sui corpi perfetti, ma sulla sensibilità e sull’emozione, spogliando l’anima dei soggetti, che diventano quindi più nudi del nudo».
La verità, secondo il genio Lindbergh, si nascondeva infatti dietro la natura delle persone, degli oggetti e degli eventi e non poteva essere riscontrabile se non tramite un lavoro di sottrazione: Lindbergh chiedeva all’attrice di svestirsi dei suoi panni; non voleva attrici davanti a sé, ma donne vere, sincere, reali, a cui non veniva richiesto di interpretare alcun ruolo. E così le rughe d’espressione della diva Nicole Kidman, i capelli bagnati e gli occhi senza trucco di Julian Moore, i capelli scompigliati e al vento di Uma Thurman servono a rivelare l’essenza dietro queste femminilità: la loro semplicità le rende infatti reali, umane, calorose.
La sua fotografia richiama lo stile dell’espressionismo cinematografico tedesco, in voga negli anni Venti (il periodo delle cosiddette avanguardie), connotato dai bianchi e neri precisi, dalle luci taglienti e nette, dalle distorsioni e dalle angolature innaturali che rendevano l’immagine degna di nota, la trasformavano quasi in un quadro dalle geometrie, a volte precise, altre volte volutamente deformate e stranianti. Caratteristica peculiare del suo stile era quella di fotografare con l’intento di soddisfare il bisogno voyeuristico ed esibizionistico dell’occhio umano perché egli sosteneva che «the eye is an erogenous zone for both sexes: the voyeur and the exhibitionist are two sides of the same personality».
Poeta del glamour, fotografo della verità, Lindbergh è stato capace di approfondire lo zeitgeist del nuovo secolo, tra rivoluzione sessuale, fantascienza, e il fascino per l’ignoto o ciò che non si comprende a primo sguardo. Nel primo caso, si concentra sull’inversione dei canoni maschili e femminili, come nel caso del servizio Al maschile e al femminile, con protagonista la supermodella Linda Evangelista che fotograferà per il servizio Gangster, in cui la figura tipicamente mascolina del gangster italiano viene personificata dalla (super) bellezza mascolinizzata (capelli tirati all’indietro, ombra dei baffi, camicia e giacca) della modella. Nel secondo caso, seppur con il suo amato bianco e nero ci abbia regalato, agli inizi degli anni Novanta, un fascinoso mondo straordinario nello scatto Femminilità Extraterrestre, in cui compare un’eterea Helena Christensen vestita di bianco, Lindbergh capisce che il modo migliore per affrontare il tema della fantascienza e della rivoluzione digitale è il colore: nel 1999, pubblica una serie di scatti intitolati Pink Psychedelia Kate Moss in cui compare un’aliena ma stupefacente Kate Moss vestita di seta, metallo e mohair, dalle tonalità blu e azzurre, con delle ciocche fiammeggianti e una sicurezza che la fanno sembrare provenire da quegli affascinanti mondi altri descritti, con fervida immaginazione, negli esperimenti alieni videoartistici di Bjork, firmati da Michel Gondry. Non solo: altri due servizi del 2000 e del 2001 dimostrano lo sguardo non solo fotografico ma anche cinematografico di Lindbergh. Nel suo editoriale The Next Day compare una fascinosa quanto eccentrica e allo stesso tempo distaccata Amber Valletta, dagli zigomi pronunciati e dorati che richiamano, assieme al suo abito aderente, la navicella spaziale, mondi lunari e galassie lontane; questo fascino per l’ignoto e l’invasione del mondo compare anche nell’editoriale del L.A. Report, in cui ritrae un immaginario set di un film fantascientifico in cui le modelle Milla Jovocich e Karen Elson sono protagoniste di un’invasione aliena in un contesto in cui le linee precise delle automobili, le espressioni dei volti umani e i fumi della gelida notte richiamano alla perfezione uno storytelling cinematografico fantascientifico.
I lavori da riportare sono davvero infiniti: il suo impegno fotografico è stato uno dei più prolifici del nostro secolo. Senza ombra di dubbio, il suo talento ci mancherà. In chiusura, noi del Culturificio vogliamo ringraziare e salutare un’ultima volta, con immenso dispiacere, il grande Peter Lindbergh, colui che fu capace di costruire e dare volto alla sincerità e, contemporaneamente, realizzare scenari eccentrici, glamour e affascinanti.
di Cristian Viteritti