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pubblicato 2 anni fa in Recensioni

Nella città dei libri: “E tutt’intorno il mare” di Dominique Fortier

Nella città dei libri: “E tutt’intorno il mare” di Dominique Fortier

Nella costa settentrionale della Francia, su un piccolo isolotto roccioso circondato dall’oceano Atlantico, s’innalza, imponente, l’abbazia di Mont-Saint-Michel. Al suo interno si trova ancora oggi il cosiddetto scriptorium, una stanza dove monaci amanuensi e miniatori, nel Medioevo, quando ancora non esisteva la stampa, si dedicavano alla copiatura di manoscritti poi custoditi nella prestigiosa biblioteca del paese; un paese che, proprio perché serbava le antiche pergamene, venne soprannominato Cité des livres, “Città dei libri”.

In questa magica e suggestiva atmosfera – resa ancor più intensa dal caratteristico fenomeno delle maree provocate dall’attrazione gravitazionale della Luna sull’acqua –, prende forma il paesaggio in cui è ambientata la quarta storia della scrittrice canadese Dominique Fortier, E tutt’intorno il mare (Alter Ego Edizioni 2021, traduzione di Camilla Diez).

Si tratta di un libro a metà tra romanzo storico e autobiografia, tra finzione e realtà, con alcune interessanti digressioni che riguardano le etimologie di determinati lemmi e i loro significati, dalle quali emerge l’amore dell’autrice verso le parole e le lingue – una predilezione nata probabilmente anche dalla sua prolifica attività di traduttrice.

La prosa, plasmata da uno stile semplice e delicato, non fluisce ininterrottamente tramite un corpo unico, ma è scandita da brevi capitoli senza titoli o numeri; per questo motivo, è facile sentirsi smarriti e sentire la necessità di dover tornare indietro: è il lettore che deve cavarsela da solo per capire chi, tra i due protagonisti, ha appena preso la parola. Ciò potrebbe risultare ostico, ma a volte c’è bisogno anche di letture sulle quali potersi soffermare e non, sempre e soltanto, di romanzi da “divorare”.

L’io narrante, infatti, come trasportato avanti e indietro dai flussi e i riflussi delle onde, si alterna tra la voce di Èloi, un pittore del Quattrocento, e quella dell’autrice stessa, la quale, per brevi intervalli, entra nel racconto in prima persona con lo scopo di redigere una sorta di carnet del proprio lavoro, reso più faticoso e incostante dall’esser da poco diventata madre: ogni minuto consacrato ai suoi taccuini le sembra un minuto sottratto alla figlia; così, la scrittura è spesso accompagnata da «una fretta e un senso di colpa detestabili».

Ma qual è il filo conduttore che unisce i due protagonisti? Se da una parte le storie, ambientate in epoche diverse, il quindicesimo e il ventunesimo secolo, risultano inconciliabili e divise dal tempo, dall’altra vengono legate dagli spazi: da quello maestoso e sacro dell’abbazia circondata dalle acque, dallo scriptorium e dalla grande biblioteca, ma più in particolare, se avviciniamo ancora un po’ la lente d’ingrandimento, da libri e parole tramutati quasi in quieti rifugi.

Il pittore, a cui sono dedicate la maggior parte delle pagine, dopo l’improvvisa scomparsa dell’unica donna che abbia mai amato decide di abbandonare per sempre tavolozza e pennelli per raggiungere il cugino, un monaco, e passare il resto della propria esistenza immerso nel silenzio della grande abbazia normanna; lì si ritrova, in un certo senso, a scrivere: diventa un abile copista dei manoscritti conservati all’interno della biblioteca; recuperando in tal modo non la pace, e nemmeno la serenità, ma una certa calma interiore.

A poco a poco si delinea anche la figura dell’autrice, che ricorda di aver avuto il primo impulso a raccontare su carta quando a tredici anni visitò proprio la “Città dei libri”. Adesso, da adulta, si ripresenta all’abbazia col timore di vederla cambiata, e ci ritorna con la memoria quando, penna alla mano, in cerca di tranquillità e ispirazione, vuole ritrovare la scintilla di un tempo, quella che venticinque anni prima aveva acceso la sua passione per la parola scritta.

Per molto tempo ho cercato di capire perché il Mont-Saint-Michel mi avesse fatto un’impressione così forte. Certo, è maestoso, superbo, grandioso; ma perché mai, nella mia testa, la scoperta che ne feci era legata al bisogno, o più esattamente alla possibilità di scrivere? (È stato durante quel primo viaggio che, con la paghetta, mi sono comprata un taccuino che ho cominciato a riempire con accanimento). Il punto è che, per la prima volta, ero arrivata nel paese dei libri. Esisteva. Potevo viverci.

Tante sono le strade tracciate, molti i temi e le trame che si intersecano tra le anime, a tratti smarrite, dei due personaggi principali. Oltre a celebrare i libri e a descrivere le affascinanti pratiche agli albori della loro diffusione, oltre a far riflettere sull’atto della scrittura e sulla sua facoltà lenitiva, oltre a mostrare alcuni aspetti talvolta difficili della maternità, E tutt’intoro il mare è soprattutto un’opera che mette al centro l’importanza dei luoghi, per i racconti e per chi li crea.

Leggendo il romanzo traspare il grande lavoro di ricerca e documentazione di Dominique Fortier sulle leggende e sui fatti che nei secoli si sono affastellati attorno al microcosmo del Mont-Saint-Michel, e che hanno contribuito a renderlo un posto intriso di storie. Le immagini e le descrizioni proiettano il lettore in un’epoca lontanissima, ai piedi dell’abbazia, a contemplare la devozione dei monaci verso quei manoscritti imbibiti in parte di saggezza, in parte d’acqua marina.

Tuttavia, se è vero che le città e i paesi “interni” alle opere – reali o immaginari – spesso sono determinanti, autentici protagonisti insieme ai personaggi, è altrettanto vero che gli ambienti e le atmosfere che fanno da corollario a chi scrive possono giocare un ruolo fondamentale per il processo di stesura, nonostante si tratti di luoghi “esterni” e quindi invisibili agli occhi dei lettori.

Dominique Fortier, aprendo una piccola finestra sulla sua attività di scrittrice, mette in luce la necessità di riappropriarsi di un territorio soltanto suo, in grado di restituirle la creatività necessaria a forgiare nuovi scenari, nuovi racconti. Insomma: talvolta è salvifico trovare quella che Virginia Woolf in un suo celebre saggio aveva definito “una stanza tutta per sé”, uno spazio tranquillo dove poter dipanare la matassa delle idee e farle confluire in una storia.

di Irene Nocentini