‘Ntrugnamentu – Graziano Gala
quando il dialetto supera la lingua
Lo scrittore Graziano Gala ci parla di ‘ntrugnamentu, una parola dialettale intraducibile e tuttavia indispensabile a definire lo stato d’animo dei personaggi delle sue opere.
‘NA COSA CA ME ‘NTRUGNA
Cadute le braccia:
se arriva alle gambe
che cosa divento?
/giuda prima, poi subito graziano
Quannu me ‘zzicca lu ‘ntrugnamentu …
(no, no, no e no. In italiano, ti dico, in italiano: l’abbiamo imparato, dobbiamo sforzarci di parlare la lingua loro, altrimenti hanno sempre la scusa per non capirci).
Vabbuòno, vabbuòno, ce pruàmm …
(insieme, coraggio, dammi la mano: un pochino a testa. Ci riesci?)
Ci riescio.
(Bravo. Daccapo).
Quando arriva nella mente poi mi perdo nella stanza. Sono sette, otto metri tutti quanti a pavimento. La mia testa è un poco scema, non mi riesco a comportare: se ci prendono qui dentro di sicuro non si esce. Questa casa è tuttimostri e non sono nella casa: sono i mostri della testa, me li porto nei traslochi – poi la sera, dentro al sonno, si sistemano nel letto: sono stanchi, a volte tristi, di dovermi spaventare [ma ad ognuno il suo lavoro: a me resta la paura].
Lu ‘ntrugnamentu in italiano è una cosa che non spiega: sono sette o dieci cose che non bastano parole: non la rabbia, quella cieca, delle botte di mio padre, né mia madre che piangeva cantucciata nella porta e neppure io che scappo mentre il buio mi raggiunge. ‘Ntrugnamentu sono i piedi tutticolla a pavimento e poi mani e ancora mani tutte quante sopra il corpo: ‘ntrugnamentu è pure un morto, che mi guarda dalla cassa, con la gente che mi dice: non ci dici niente al morto? (E che cazzo ci diciamo, che qui è tutto morto dentro?). Se ti prende ‘ntrugnamentu è difficile parlare: le persone son giganti che si perdono a ogni metro, le parole sono vetro conficcato nelle mani, non ci sono volti umani, solo ombre dentro agli occhi. È una cosa di dolore che si annida dentro al petto, poi ti stringe sulla pancia e si allarga sotto i fianchi: se ti prende tra le gambe poi le chiude dentro a un nodo: non c’è modo di venire se si appoggia alle ginocchia. Questo santo ‘ntrugnamento è questione di bambini, o di adulti mai cresciuti, che bambini son rimasti: sono sassi sui talloni, soffi nelle orecchie, cantine buie e vecchie che non puoi più liberare, ché la chiave è nella cassa e la mano non si mette: a toccare dentro a un morto poi ti muore tutto dentro.
Ogni tanto, mentre scrivo, se mi prende ‘ntrugnamentu mi tiro cento schiaffi, mi tocco dentro ai polsi: mi respiro sotto al tetto che ora soffre di condensa, mentre piango la presenza dei miei cento-mila morti. Ci sarebbe quasi un sogno di scordarmi cosa resta, ma la testa è dentro al cappio – son lucertola che è ferma. Se mi muovo sono collo, se li aspetto sono preda. Che io non veda fuori stanza è sicuro come il legno. Certe volte i cento mostri che rimangono a guardare, io li vedo un po’ infelici che si cercano la sedia (pure loro, non lo sanno, ma son tutti ‘ntrugnamentu): io ci porto un poco d’acqua, ci dico che fa niente, che non sono colpe loro, che la colpa è il generare (ché se prendi un bambino e lo scuoti dove serve poi alla fine è solo un corpo ca mmantùna1 cicatrici). Io li vedo che di sbieco sono mani nella bocca e ginocchia tutte in fuori e dolori nella faccia – che vorrebbero migrare, come fanno con gli uccelli, spaventare questi e quelli di paure non antiche, andare a far terrore per questo e l’altro mondo:
io li guardo comprensivo, coi rumori nella testa, e ci dico – mostri cari, noi faremo girotondo.
/giuda
(Tocca a te, vuoi parlare dialetto?)
‘Talianu.
(Sicuro? Non sei obbligato.)
Aggiu dittu ‘talianu.
Quannu prenne ‘ntrugnamentu è dificcille parlare. È na cosa viscirale ca te gnutte tuttu quantu (che ti inghiotte tutto quanto. Piano, parla piano). Che ti senti le novene che si ammangiano la testa. Che la messa te la fanno tutte ‘i ccose ca nu ttieni (le cose che non tieni: piano, vai piano). Io ho tenuto ‘ntrugnamentu nelle botte di mio padre, intra ‘e lettere mancate di mia moglie non risposte: a pigghiare li mazzate, a vedere amici morti. A sentire che Calabria mi portava carciratu. Su ‘ntrugnatu pure mo’, ca li taliano nun lu sacciu (ti aiuto io, è tutto a posto). Quelle volte che mia figlia mi ha negato li nipoti, e quei voti che ho dovuto scancellare con la lingua. E le volte che mi hai detto che mi chiamavo Giuda, che Giuda mo’ mi sento ed è cosa ca nun passa.
/giuda, graziano (insieme)
Che se mio padre aves-se det-to (dammi la mano, dammi la mano: calma) mezza vota – io t’abbraccio – mo’ sarei un po’ meno straccio e nu pocu cchiù cristianu. Noi invece ‘stu trumentu2 tuttu quantu me lu sentu: siamo uòmi di dolore, siamo tutti ‘ntrugnamentu.
/ i motivi di una scelta
La parola ‘ntrugnamentu è uno dei quei vocaboli maledettamente intraducibili e tremendamente presenti: segnano il volume, il respiro perfino, di molti dei miei personaggi. Se dicono triste non hanno capito recita Strumia in un suo scritto trovandomi concorde: nell’impossibilità di molti protagonisti, nell’incapacità di realizzare vite, occasioni altre e tentativi c’è quella consapevolezza di un’impotenza di fondo che rende tutto più miserevole. Nessuno vuole le lacrime, nessuno le carezze: solo poterci guardare per quello che siamo – Giuda che non sa scrivere e che riceve gli sputi di tutti, Mino che non sa leggere nell’età dell’apprendimento, Giuno che non sa accarezzare, allora picchia. Ci sentiamo degli sconfitti, scrivente incluso, che non sapranno mai stare al mondo come quelli perfetti, riusciti della vita o quanto meno consapevoli. Per questo abbiamo paura, per questo abbassiamo la testa, pe’ chistu simu ‘ntrugnati. La nostra è una resa furibonda: vogliamo parlare sapendo di non avere i denti, la lingua e la bocca. Ci troviamo ad urlare dove non si sente.
Da Sangue di Giuda (minimum fax 2021)
Fransisco Franco, ’o Commissario l’aggiu ribbattezzato accussì, tiene sempre nu velu di pietà ’ntr’all’occhi, comm se capisce che i criminali so’ autri ma accà chistu hannu purtatu e chistu amm interrogare. Mi chiede d’o Mivàr, d’a casa, d’i cardini e d’a porta. Mi chiede delle notti. Mi chiede di papà.
Io ci racconto tuttu chillu ch’iti letto vui e mi fermo quando dice fermati e riprendo quando dice ricomincia e ripeto quando dice daccapo. So’ comm i cani, ormai, m’hanno addestrato. Quando racconto delle notti, quando racconto delle corse ’e pazzi a mmenz’alla via la voce nu poco mi trema e me vene a chiagnere, però ingoio e butto tuttu dintra ca amm vomitato abbastanza veleno in settimana. Lui dice: «liberati, parla». Io parlo Commissà, parlo: siti vui, con tutto ’o rispetto, ca m’iti liberare.
O Commissario dice ca m’agg’ riposare, che mi vede smunto, dice. «Comm ’e vacche», aggiungo io. Lui però non ride. Mi spiace: lo vedo propio provato, per usare na parola sua, ’stu cristianu: non sacciu cchiù comm l’agg’ rasserenare. «LA DEVO FARE TRASFERIRE IN CELLA, PER QUESTA NOTTE», dice amareggiato.
«Va bene Fransisco», ci rispunnu. Lui non capisce, s’azza, m’abbandona alle cure di Calabria che nel trasferirmi se ’ntrugna tuttu. «Giovanotto», ci dico, mentre m’accompagna mmanettato, «mi serve nu televisore, stanotte, pe’ cause di forza maggiore». «Giudariè», me rispunne, «i televisori li diamo sottobanco a quelli che stanno al Quarantuno Bis. Tu si’ nu cugghiune ca ha fattu nu reatu comune, e pure senza accorgersene. Mi dispiace». Ed è nu dispiacere vero, certificato dalla delicatezza con cui mi porta arreta ’e sbarre.
Graziano Gala vive nella provincia lombarda, insegna storia e italiano in un professionale. Ha scritto racconti su riviste e litblog. Ha pubblicato per minimum fax Sangue di Giuda (2021), Ciabatteria Maffei (2023) per Tetra. Ha curato per Baldini&Castoldi il Controdizionario della lingua italiana (2023).
Collabora con Risme e scrive per Treccani.
Di parola in parola è una rubrica a cura di Emanuela Monti. Dalla nota introduttiva è possibile scaricare l’archivio della rubrica, uscita fino al 2019 in forma cartacea nella rivista «Qui Libri».