Claudia Giovannini
pubblicato 6 anni fa in Altro \ Letteratura

Peer Gynt e la conquista di sé

Henrik Ibsen tra Hegel e Kierkegaard

Peer Gynt e la conquista di sé

C’è un enigma intollerabile i cui vocalizzi, anziché dilettare, angosciosi violentano l’orecchio di un uomo: io sono davvero me stesso? Posso io conquistarmi? Non ha certo preteso di fornire una risposta, è stato forse più generoso Henrik Ibsen (1828-1906), drammaturgo e poeta norvegese, donandoci quel piccolo capolavoro teatrale quale è Peer Gynt.
Rappresentato a Cristiania nel 1876 con le splendide musiche di Edvard Grieg, si presenta subito buffonesco questo poema in cinque atti che narra la vita di un giovane alle prese con troll, ori marocchini, manicomi e cipolle; purtuttavia, dietro la scorza luminosa del fiabesco si cela nell’ombra una spaccatura che provoca vertigine, un passaggio filosofico estremo che i versi del Peer Gynt non vogliono spiegare, ma su un palco mettere in scena.
Quello che Peer stesso più avanti chiamerà “io gyntiano” comincia a manifestarsi nel più esilarante dei modi quando, battendo la testa contro una roccia, il giovane perde i sensi e si trova a sposare nientemeno che la figlia del re dei troll. Davanti alla promessa di una dote sì ricca, egli non esita ad acconsentire alle nozze, e subito le bizzarre creature prendono a spogliarlo di ogni suo connotato umano: gli sequestrano le vesti, lo fanno bere e mangiare come di loro usanza, tentano persino di agganciargli al didietro una coda, sicché per la prima volta egli sente di star perdendo la sua umanità, con questa il suo vero “” che adesso è in grado di riconoscere appieno. Con le unghie e coi denti lottando, Peer è salvo soltanto al rintocco di alcune campane, senonché una voce ignota nel buio lo incalza.

UNA VOCE NELLE TENEBRE Fa’ il giro, Peer! Il bosco è grande!
PEER GYNT Chi sei?
LA VOCE Io stesso. Puoi tu dire altrettanto?

Tale mosaico di immagini introspettive, degne del più lucido folklore nordico, gettano il ragazzo in una serie di interlacciate crisi d’identità. Reduce dai suoi studi filosofici, Ibsen dapprima ricalca una memoria traslucida colma di rimandi hegeliani: la lotta contro i troll come parodia della più alta autocoscienza, il panorama di fondo per cui “ciò che è reale è razionale” costituiscono un approdo decisivo per il protagonista, ora più che mai convinto di avere piena conoscenza di sé, d’essere “sir Peer Gynt dalla testa ai piedi” in un contesto nel quale la ragione del cosmo e il mondo soggettivo non sono più distinguibili.

VON EBERKOPF Avete un’esperienza di vita che vi pone alla stregua di un pensatore. Mentre una mente irriflessiva vede ogni scena isolatamente e non finisce mai di brancolare, voi sapete considerare le cose nel loro insieme; per tutto avete una stessa norma; sottilizzate i giudizi vaghi, così che ciascuno di essi emana come un raggio del vostro concetto della vita. […]

Ma già in crisi era la filosofia nel momento in cui, al cospetto del re dei troll, Peer veniva messo di fronte a una scelta cruciale.

VECCHIO DI DOVRE […] là fuori, sotto i raggi del sole, gli uomini si dicono l’un l’altro:”Sii te stesso”. Invece qua fra i troll il motto è:”Ti basti essere come sei!”

Un aut-aut, quello tra l’essere uomo o diventare troll, che Peer sente in un misto d’indugio e seduzione, riportando il lettore all’omonima opera del filosofo danese Søren Kierkegaard (1812-1855). Il passaggio è netto, ed è dolorosissimo. L’esistenza vien fuori neonata da un guscio già rotto, ora l’uomo è libero di prendere le sue proprie decisioni; non c’è più nessun assoluto, nessuna struttura razionale, ma il singolo individuo danzante tra le possibilità che con grazia si snodano innanzi a lui. Peer dapprima non si accorge del tanto drammatico quanto rivoluzionario trapasso, nel frattempo incarna un magistrale esteta kierkegaardiano, un adulto arricchito che viaggiando nei più esotici luoghi si rifugia nel proprio godimento.
L’angoscia tutta esistenzialista lo coglie impreparato, con lui l’uomo ottocentesco vive quel brivido intollerabile di fronte a un’eccessiva libertà di scelta – quando si vede annunciato che “la ragione è morta e trapassata” pare come impazzire sino alla nevrosi:

PEER GYNT (barcollando) Che cosa…? Chi sono? Oh tu… sorreggimi! Son tutto ciò che vuoi… un turco, un peccatore… un troll della montagna… ma aiutami… questo è troppo! In questo momento non ricordo il tuo nome… ma assistimi, o protettore di tutti i mentecatti!

Emblematica la scena in cui un Peer Gynt quasi anziano è intento a sbucciare una maleodorante cipolla, togliendo una ad una le pellicole senza trovare l’autentico nocciolo. Sintomo, questo, di un “io gyntiano” che non ha mai avuto l’azzardo per elevarsi alle sfere più alte dell’individuo – etica o religiosa che siano -, e disperato avverte di non saper nemmeno spiegare quando realmente sia stato se stesso.

L’autentica conquista di sé è un problema filosofico. La tradizione ne è la prova, il dibattito piange e si dimena, si chiede come, prima ancora se l’uomo possa rimanere fedele a se stesso malgrado le continue decisioni alle quali freneticamente è sottoposto – e poi, di cosa parliamo quando parliamo di “”? L’enigma tuttora posa sulle labbra di una sfinge muta, ancora grava una pesante eredità di pensiero, resa dolce tuttavia da opere straordinarie come Peer Gynt, da uno scaffale di libreria il promemoria a interrogarci su noi stessi, e continuare a farlo sempre.

Bibliografia:
Henrik Ibsen, Peer Gynt, Einaudi (1997)

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