“Pelleossa” di Veronica Galletta
a ciascuno il suo. A ciascuno la propria Sicilia.
Questo libro, ambientato all’ombra di un paesino siciliano del secondo dopoguerra, ha l’afrore di terra e di mare, di ruggine e di glicine, di realtà e di fantasia, di un’umanità corale e bisbigliante dai molti volti, come le sirene di Ulisse, e di profonde e laboriose solitudini come quelle dei Ciclopi.
Sono pagine che forse non potevano essere scritte nell’italiano standard perché ne sarebbe risultato un canto parziale, quasi in falsetto, incapace di restituire le luci e le ombre di un luogo oramai lontano per la scrittrice (che oggi vive a Livorno), ma ancora palpitante nei suoi ricordi.
L’identità perduta si fa dunque scrittura ma si esprime in un lessico che risponde a una domanda così tipica del Sud Italia, sottesa a tutto il romanzo: ‘A cu’ apparteni?’. Perché in Pelleossa (minimum fax, 2023) Veronica Galletta usa una lingua mista, un impasto, che ricorda la migliore tradizione del teatro di De Filippo, di italiano e di dialetto, una parlata che dà voce a due anime che convivono nella stessa persona, quella che sta fuori all’isola e quella che, in fondo, è ancora là.
Il siciliano di Galletta, il suo siciliano, aspro nelle definizioni e dolce nelle allusioni, è la trascrizione fonetica del parlato, o meglio: dell’ascoltato, ossia di quelle parole che l’autrice ha udito nella parte orientale della Sicilia, di cui è originaria, ma anche di quelle che, nella sua creatività compositiva, sono state rimodellate e diventate, in alcuni casi, neologismi per avvicinare il lettore alle sonorità di una terra che forse può essere compiutamente descritta solo chi la osserva da lontano e le parla.
Ci troviamo dunque di fronte a intermezzi di un siciliano ostico nelle prime pagine per chi non ha familiarità con quel dialetto, un siciliano che di pagina in pagina diventa un compagno di viaggio. Ma dobbiamo comunque accettare in questo libro di non capire alcune parole, non alcune cose, come fanno, in fondo, i bambini…
Ed è proprio intorno a un bambino singolare che si sviluppa questo romanzo così sonoro.
Paolino, «con l’occhi d’aliva e i capelli di castagna suprassutta, come appena arruspigghiato», con quell’aspetto arruffato di chi si è appena svegliato e forse non avrebbe voluto farlo, è un ragazzino solo e timoroso che cerca una famiglia al di fuori della sua famiglia soprannominata i ‘Pelleossa’. Nell’orgogliosa distinzione in paese tra i ‘Sali’, i pescatori, e i ‘Terragni’, i contadini, il piccolo, pur appartenendo al primo gruppo, preferisce rifugiarsi sulle alture, sotto un ulivo.
Così, lontano dai pesci di cui ha paura e soprattutto da ciò che il mare inaspettatamente restituisce, può stare in compagnia del suo sguardo lontano per riflettere sulle possibilità della sua diversità e su quella che, suo malgrado, coglie nello sguardo irritato di suo padre e di suo fratello, pescatori indefessi.
Non ha amici, i suoi coetanei lo evitano e, osservandone l’indole riflessiva che sfiora a volte la non presenza a sé stesso, lo hanno ribattezzato ‘Ncantesimo’, con la classica prassi dell’ingiuria che è ciò che rappresenta per la comunità e che marchia la sua esistenza come una lettera scarlatta alla Hawthorne. Ma serve una prova di coraggio per eliminare questa ingiuria: raggiungere la casa del pazzo del paese, Filippu, un Polifemo con il suo ‘gregge’, un uomo schivo e, a suo modo, immerso in pensieri altri che passa da vent’anni le sue giornate a scolpire teste di pietra, per sottrargli la mazzetta.
L’impresa tuttavia non si risolve nel furto dello strumento del lavoro ma in un incantesimo che fa incontrare due solitudini. Tra loro si instaura un dialogo dove molto si dice e poco si confessa, nel bisogno di interpretarsi a vicenda e raccontarsi le cose del mondo. Quello che è stato, pieno di misteri e di non detti, che ancora martella la testa di Filippu, e quello che sarà per Paolino, così pieno di punti interrogativi su ciò che lo circonda e, in fondo, su sé stesso e sulla propria famiglia, punti interrogativi che gli calano dall’alto come ami da pesca a cui vorrebbe volentieri abboccare. Vecchiaia e infanzia dunque si toccano ma le domande chesi pongono sono le stesse.
Grazie a Filippu il ragazzo scopre il dono di sapere sentire più che ascoltare – cosa che gli riesce più naturale con le persone più grandi, certo non con tutte – e di non dare retta alle voci del paese ma di farsi una idea propria su ciò che vede. Quello che si diceva fosse un antro abitato da pazzia luciferina si rivela piuttosto un osservatorio privilegiato sul mondo, dal quale iniziare a scorgere più chiaramente sé stessi e gli altri.
Ma è solo un inizio, non c’è mai uno sguardo definitivo perché Paolino acquisisce informazioni su un arcipelago di famiglie e di storie ma molto continua a essere raccontato a metà; gli sguardi, impacciati, si voltano dall’altra parte e si cambia discorso.
Cosa stanno nascondendo a Paolino? E ancora: Di che colore è sua appartenenza?
Di suo ha capito che i veri diavoli sono quelli che stanno fuori dalla casa di Filippu, in paese. Come ha capito che le teste scolpite si rivolgono solo a lui con quelle parole di conforto e consiglio che si aspetterebbe dal mondo dei vivi mentre invece immagina di sentirle dal mondo dei morti.
Ma come gestire quella strana sensazione, la stessa che gli chiude lo stomaco quando è costretto ad andare in barca, quando vede nel teatro dei pupi Gano di Maganza, il traditore, collegando il fatto che suo padre è ingiuriato in paese come ‘Saracino’? Allora avevano ragione i vecchi del paese?
A Paolino restano le parole. Quelle per dirsi davanti agli altri: «diverso da tutti, uguale a nessuno» e per creare mondi, non importa se reali o immaginari perché la fantasia è sempre un’altra faccia della realtà che vale la pena viversi. Ma sempre con quella forza di andare al di là delle parole stesse, trovarne di nuove, per raccontare il momento in cui morderemo la realtà che ci è stata promessa o che ci siamo costruiti, anche a volta sognando a occhi aperti, e renderla poesia.