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pubblicato 7 anni fa in Altro

Pensare lo straniero

Pensare lo straniero

Questo è un pezzo geografico. C’è l’Italia, la Francia e l’Africa. L’Africa non è un paese, ma questo pezzo parla d’Africa perché d’Africa, almeno, si deve parlare quando si parla di stranieri. In Italia c’è Sanremo, che sta vicino a Ventimiglia e Gorizia. E a Ventimiglia e a Gorizia di stranieri ce ne sono tanti perché la frontiera è vicina. È vicina e chiusa. Le frontiere fanno i paesi e fanno gli stranieri.
Questo è un pezzo umano, perché di umani sono le idee e di umanità le idee sono fatte. A Sanremo hanno vinto Moro e Meta con una canzone che dice che gli attentati dei terroristi non ci hanno fatto niente, che la vita va avanti oltre alle guerre inutili di qualcuno, che costruiamo ingressi diversi per la stessa casa, come le Chiese e le frontiere. Al di là della frontiera di Ventimiglia è nato Bernard-Marie Koltès, e francese è Albert Camus. Il primo ha scritto il monologo che Favino ha portato a teatro, a Roma e quindi a Sanremo, dove la telecamera è stata l’occhio unico di tutti. Il secondo ha scritto Lo Straniero e Saviano ne ha fatto un’introduzione che lo completa, dall’inizio.

Questo è un pezzo geografico, occorre una bussola che punti al punto dove cominciano le cose. Le cose, qui, cominciano con quello Straniero di Camus. Lui stesso era uno straniero che ha smesso di combattere con la sua natura di straniero. Era francese nato in Algeria, colonia francese, tra arabi che lo percepivano come europeo e quindi privilegiato, poco importa che fosse figlio di operai. Era simpatizzante con chi lo odiava, non poteva biasimarli. Non riusciva però a condividere le rivendicazioni del Fronte di Liberazione Nazionale algerino che vedeva nel francese in Algeria il primo nemico da combattere, solo perché più vicino e più facile da combattere. Nel suo Straniero, Mersault uccide per caso un arabo e per questo viene condannato a morte e lui non riesce a vedere come sia giusto non farlo. La vita gli scorre davanti, di lato, dietro e addosso. La vita gli capita, l’esistenza è qualcosa che accade, a caso. Questo pensiero l’ha cristallizzato Saviano in quell’introduzione che completa. Mersault è quindi uno straniero, non già perché francese espatriato in Algeria, ma soprattutto perché umano perso tra le fatalità insensate e crudeli della vita che accade senza dare spiegazioni. Quindi Mersault è straniero come l’arabo che uccide, come il giudice che lo ascolta e si stupisce del suo gesto, come la giuria che lo condanna, come il boia che esegue, come la folla che grida felice alla giustizia, come lui stesso che vive quelle grida come gradite compagne.

Saviano ragiona sui fatti e le conseguenze di Macerata. Dice che negli altri paesi la spinta xenofoba è nata principalmente a causa degli attentati terroristici, mentre da noi la stessa si è svegliata e rinvigorita a seguito dell’unico attentato terroristico, di matrice fascista e razzista. Non è un’opinione, è un fatto, anche se l’ha detto Saviano e a quelli di sinistra, di destra, di centro, di sopra e di sotto Saviano non piace perché è noioso e si compiace di vivere da dieci anni rinchiuso con la scorta. Anche Saviano è uno straniero in casa sua. Con i feriti di Macerata gli italiani non trovano empatia, non li hanno capiti, non gli sono stati vicini. Piuttosto, hanno cercato a fondo tra le motivazioni che hanno spinto un candidato leghista, fascista, razzista, con problemi psichiatrici, a sparare sugli stranieri. Ne hanno trovati tanti, evidentemente. Niente, invece, per chi è andato in ospedale senza capire perché. Perché sono stranieri.

È uno straniero che parla in queste pagine. Non sono io, la sua vita non è la mia eppure mi perdo nelle sue parole e mi ci ritrovo come se lo fosse. Il suo racconto mi porta in strade che non ho camminato, in luoghi che non ho visitato.

Favino si sente a casa nell’interpretare uno straniero. Interpreta il monologo del francese Koltès, cerca un posto per sdraiarsi sull’erba, del tempo per pensare in un mondo che ti dice solo di andare via. “La notte poco prima della foresta” è quella italiana, francese e africana. Tutte insieme nelle giungle che creiamo per nasconderci e dimenticarci. Le giungle dove l’umanità è stipata in file per il pane. Dà vita a uno straniero dell’est che parla più romano che italiano e che a Roma non trova una casa e ogni angolo è un rifugio, ogni passante un fratello. Un fratello che non lo riconosce. E allora lui urla e piange e si dispera e cerca quel posto per sdraiarsi e stare bene. Ogni volta se ne va e ogni volta sa che il posto che lascia sarà sempre più casa di quello che troverà. E quindi ogni giorno è più straniero, sempre più lontano da casa. L’unica soluzione per essere meno stranieri è raccontare il proprio viaggio a un altro straniero, che è chiunque passi, perché chiunque passa, chiunque viaggia e chiunque è straniero. L’unica soluzione è ascoltarsi perché tutti ci conosciamo e ci riconosciamo come stranieri. “Tu che m’ascolti, insegnami”. Lo cantava Faber tra il “Cantico dei drogati”, il canto di tutti.

Questo è un pezzo geografico e umano. Geografico perché non vuole frontiere, umano perché le parole sono dell’uomo. Questo pezzo è geografico e umano insieme perché altro non siamo che geografia. I posti che vediamo, le direzioni che prendiamo, le barriere che scavalchiamo. Perché l’umanità sa opprimere come solo la geografia riesce. Perché l’umanità sa essere bellezza incandescente solo come la geografia dimostra.

Esiste la bellezza ed esiste l’inferno degli oppressi, e per quanto possibile vorrei rimanere fedele a entrambi.

Ci credeva Albert Camus, ci devo credere anch’io. Io che sono straniero.

 


 

Articolo a cura di Simone Zivillica