Culturificio
pubblicato 3 anni fa in Di parola in parola

Perdita – Francesco Borrasso

l’ineluttabile costrizione che l’esistenza ci riserva

Perdita – Francesco Borrasso

Lo scrittore Francesco Borrasso ci parla di perdita, tema centrale nel romanzo La bambina celeste, che racconta il lutto supremo della morte di un figlio e il dolore di una sopravvivenza innaturale.


Nella vita siamo continuamente esposti alla perdita, perdiamo continuamente oggetti, occasioni, perdiamo spazi e tempo, perdiamo, talvolta, persone. Sono tutti movimenti uguali eppure diversi, diversi per intensità, per grado emozionale, per livelli di consistenza. Perdere un oggetto fa sbocciare rabbia o tristezza, e possono essere emozioni più o meno forti; gli oggetti sono inanimati, così come le occasioni e anche se il tempo, invece, si muove, è comunque un luogo astratto, una terra che non possiamo toccare. Perdere una persona è come camminare sopra una sottilissima lastra di ghiaccio, sotto i tuoi piedi, dopo quei due centimetri di effimera sicurezza, c’è un’acqua ghiacciata, c’è qualcosa che è pronto ad abbracciarti con una presa fatta di spilli invisibili e di dolori indicibili, dolori che strisciano, buchi profondi dentro lo stomaco. La morte, quindi, che cammina di pari passo con il perdere, con una sorta di sconfitta che ci affolla gli occhi e il petto e che ci fa respirare piano come se fossimo in apnea.

Da questa parola, Perdita, nasce il mio romanzo La bambina celeste, pagine in cui racconto di un padre a cui muore la figlia piccola a causa di un cancro. Tutto quello che scrivo parte dalla perdita, e non sempre intesa come lutto. Si può perdere se stessi, si può perdere un amico o un amore e ogni tipo di perdita racchiude in sé momenti differenti, spostamenti e pensieri e sofferenze che anche se ben distinti tra loro restano allacciati dal dolore. La bambina celeste affronta il tema del lutto, il lutto contro natura, la perdita di un figlio, un’immagine che dovrebbe essere impossibile, quella di un genitore che deve sopravvivere alla sua prole. A raccontare è, appunto, un padre che è costretto a fare i conti con il mostro, a combattere con il silenzio delle stanze vuote o con il brusio delle corsie di un ospedale, che è costretto a scarnificarsi nello sguardo di una figlia che chiede salvezza. C’è una costrizione nell’esistenza, c’è una costrizione che ci viene inflitta nella carne nel momento in cui nasciamo, ed è quella di perdere, con il tempo, tutto. Nasciamo con la consapevolezza, che acquisiamo con i giorni, che tutto quello che vediamo intorno a noi prima o poi non ci sarà più: un campo di girasoli (che un giorno perderemo, che un giorno non potremo più vedere), il volto di un genitore, il suo sorriso, la sua debolezza quando il tempo dell’addio preme alla porta, l’automobile che ci ha accompagnato nei primi anni di guida, non potremo più vedere quel cucciolo di cane che abbiamo visto entrare nella nostra camera quel pomeriggio in cui nostro padre ci ha voluto fare la sorpresa più bella. Perdita, quindi, anche di quello che siamo, perché ci sono ore dense, ore livide, ore blu in cui possiamo essere costretti a difenderci da noi stessi, immersi dentro lo sconforto di tristezze che somigliano a sabbie mobili, o dentro rabbie adulte che diventano rabbie bambine e che si accalcano sullla faccia, ore di paure, fondate o infondate, visibili o invisibili, paure che ci si aggrappano alle gambe raccontadoci debolezza o che ci ingolfano il torace e la gola spiegandoci la bugia di una mancanza d’aria che dipende, poi, solo da noi stessi. Perdere, perché nei nostri anni, l’unica abitudine che ci verrà imposta, sarà quella di perdere, farlo con un numero in mano, o in fila davanti alla cassa del supermercato, farlo dentro un abbraccio o con gli occhi bagnati sopra la terra fresca appena gettata da una pala di metallo ad una cassa di legno; farlo con eleganza o con disorganizzazione, farlo con dolore, con dolore solido o dolore liquido, farlo con gli attacchi di panico o con i battiti mancanti di un cuore che rimbalza nel petto a suo piacimento, farlo con le gocce per calmare i muscoli o con le pillole per provare a sorridere dentro il buio.

Perdere vuol dire, molto spesso, avere a che fare con un’impossibilità d’azione che riesce a farti smettere di credere nella vita.


Da La bambina celeste, Ad est dell’equatore, 2016

È il funerale di mio padre, un altro pezzo di me s’è consumato nel lutto; la morte gioca a nascondino, prima o poi ti trova. Il dolore mi ha trafitto, l’abitudine alla perdita non mi ha reso indenne alla sofferenza perché non è possibile abituarsi alle perdite. […] Hanno sempre detto che i mali ti rendono più forte. Dicono che una persona che subisce una gran dose di sofferenza diventa vigorosa. Dicono che affrontando i problemi, cresci e diventi invincibile. Io ho perduto un padre e una figlia, mi sento debole, pesante. Quello che non ti dice nessuno, però, è che tutte le sofferenze ti si attaccano addosso, e che sì, ti proteggono, però ti chiudono dentro te stesso; una condizione che ti fortifica ma ti rende pesante, è difficoltoso anche il minimo movimento. Dicono che i lividi diventano cicatrici da mostrare, quello che non dicono è che poi, quei lividi, non li dimenticherai mai, e nella sofferenza la memoria subisce dei colpi, si formano dei fori neri, che vengono riempiti a caso, dal tempo. Giorgia, ricordo il giorno che ti promisi che ci sarei stato per sempre, ricordo come cadeva la luce sul cemento, ricordo le espressioni della tua faccia e il movimento minuzioso dei tuoi occhi; ricordo che tu mi chiedesti: sempre sempre? E io ti risposi: sempre per sempre.
Giorgia, vorrei che tu sapessi che io per salvarti non avrei potuto fare niente; che se avessi potuto, alla macchiolina nera, avrei dato in pasto la mia carne al posto della tua.


Francesco Borrasso (Caserta, 1983). È scrittore e editor. Si è diplomato in regia cinematografica alla scuola di cinema napoletana: Pigrecoemme. Ha esordito con il romanzo La bambina celeste (Ad est dell’equatore, 2016). Ha poi pubblicato la raccolta di racconti Storia dei miei fantasmi (Caffèorchidea, 2017). Ha curato una raccolta di racconti di autori vari (tra cui Carmen Pellegrino, Stefano Corbetta, Peppe Millanta, Giorgia Tribuiani, Orazio Labbate, Alessio Romano) Polittico (Caffèorchidea) nel 2019. Tiene corsi di scrittura creativa. Collabora con «Sul Romanzo», curando la rubrica La bellezza nascosta. Collabora con «Nazione Indiana». Editor per la casa editrice Caffèorchidea.


Di parola in parola è una rubrica a cura di Emanuela MontiDalla nota introduttiva è possibile scaricare l’archivio della rubrica, uscita finora in forma cartacea nella rivista «Qui Libri».