Pietro Marubbi e il suo archivio
tra negativi e lastre di vetro
Che l’epoca storica in cui viviamo sia caratterizzata da social media pervasivi e onnipresenti non è un mistero né lo è il fatto che la fotografia abbia sviluppato un valore a tratti diametralmente opposto rispetto a quello che le era proprio alla nascita e sia, ora, sostanzialmente uno strumento di pubblicità più che di documentazione. Naturalmente la situazione non è così chiaramente delineata ed è necessario tenere presente che sussistono possibilità di interpretazione meno nette ed inequivocabili.
Certo, la pratica del ritratto fotografico può, in buona misura, essere considerato conseguente a quello pittorico, che è da tempi remoti uno dei canali prediletti dagli uomini di ogni classe per sancire il proprio status sociale. Inoltre, non si può negare che sia esistito un periodo storico, neanche così lontano e piuttosto duraturo, in cui il ritratto ricoprì un ruolo primario nella modificazione della memoria collettiva. Si tratta e si trattava, infatti, come per la fotografia, di creare un ricordo, lasciare il segno del proprio passaggio; tale azione si configura, nei secoli, in modo via via differente e ha inevitabilmente a che fare col progresso tecnologico. In effetti, innumerevoli artisti hanno dedicato, del tutto o in parte, nel corso della storia, la propria arte al ritratto, (si pensi a Louis David, Van Dyck, Gilbert Stuart). Peraltro, le origini della ritrattistica sembrano affondare molto lontano sia in senso cronologico sia geografico: prova ne sono le innumerevoli raffigurazioni, soprattutto di governanti e divinità, rinvenute nella cosiddetta Mezzaluna Fertile.
Per ciò che concerne la tecnica fotografica, la sua invenzione – nel XIX secolo – ed il suo graduale, ma celere, miglioramento permisero di ritrarre sempre più persone, anche di estrazione sociale medio-bassa, e di estendere la pratica. Neanche a dirlo, ciò fu causa di un’accesissima disputa sullo stato di inferiorità della fotografia, che combinava elementi chimici, ottici e meccanici, rispetto alla pittura. Tuttavia, parvero immediatamente chiare le sue potenzialità nell’ottica di un utilizzo più cospicuamente scientifico: la macchina fotografica divenne, infatti, strumento inseparabile di viaggiatori, esploratori, giornalisti e archeologi. Non fu, dunque, un fenomeno ristretto soltanto a quella che oggi si considera, sulla base dei confini politici, Europa ed è sul solco di questa scia che s’innesta la vicenda di Pietro Marubbi.
Piacentino di origine, poi naturalizzato albanese come Pjetër Marubi, riparò in Albania dopo la condanna all’esilio perché ritenuto coinvolto nei moti risorgimentali – era infatti sostenitore di Garibaldi – e nell’assassinio del sindaco di Piacenza. Era il 1856 circa quando, dopo innumerevoli peregrinazioni, trovò asilo politico a Scutari e vi aprì il primo studio fotografico di tutto lo stato. Superata l’iniziale diffidenza dei cittadini, si occupò di ritratti di privati, ma pare anche di servizi fotografici per riviste, finché la fama sua e della sua arte non si estesero per tutta l’Albania, al punto che intere famiglie si mossero dal loro luogo d’origine a Scutari per farsi ritrarre. I soggetti erano vari, in particolare Marubbi osò sfidare le prescrizioni dell’Impero Ottomano, allora regnante, ritraendo giovani donne a volto scoperto; ma fotografò anche paesaggi, persone di ogni estrazione sociale e militari, per la maggior parte turchi, di stanza sul territorio, a volte ritratti con le loro famiglie. Benché porti il suo cognome, però, l’archivio non contiene unicamente foto scattate da Pietro: vi sono circa cinquecentomila negativi. Infatti, in punto di morte, egli adottò uno dei suoi garzoni Kel Kodheli a cui aveva insegnato il mestiere nel corso degli anni, e che, divenuto parte della famiglia ufficialmente, portò avanti lo studio e lo consegnò in mano ai propri figli fino al 1970, quando fu regalato allo stato albanese, allora comunista. Ancora oggi la famiglia Marubbi ha un’ottima reputazione a Scutari e l’archivio un’altissima rilevanza storica e sociale, motivo per cui la Triennale di Milano ha da poco ospitato una mostra che associa la fotografia dei Marubbi ad un “rituale fotografico” – che ne è anche il titolo. Vi si trovano immagini di vario tipo, che ad una prima occhiata non sembrano aver molto in comune. Tuttavia, a ben guardare, è davvero pertinente l’idea di associare le diverse fotografie ad un vero e proprio rituale, in quanto, persino quelle che ritraggono scene di vita quotidiana sembrano suggerire che allo scatto precede o segue un cambiamento profondo. Infatti, la preparazione sia per i soggetti sia per i tecnici era lunga, così come l’esposizione alla lente ed è ragionevole quanto comprensibile che si uscisse dallo studio, in buona misura, modificati a propria volta da quella esperienza.
Probabilmente questo cambiamento è anche connesso al medium che, come il ritratto nei secoli precedenti, costituiva all’epoca uno dei più efficaci modi di documentare la propria superiorità o, comunque, lo status sociale. Molti dei soggetti, infatti, mostrano un aspetto curato e paiono indossare abiti, per così dire, di rappresentanza, come se quell’insieme di chimica, ottica e meccanica racchiusa in un interessantissimo quanto incomprensibile marchingegno, potesse realmente sancire la prova della loro presenza a questo mondo.
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