Quando la lotta alla discriminazione di genere parte da un uomo
"Una giusta causa"
Dopo aver interpretato la moglie di Stephen Hawking nella Teoria del tutto, Felicity Jones torna al cinema con un nuovo biopic, ma adesso è lei la protagonista.
La pellicola in questione è Una giusta causa, film che racconta la vita di Ruth Ginsburg, una delle prime donne ad essere ammessa ad Harvard, e tra le pochissime ancora oggi ad aver ricoperto la carica di magistrato della Corte Suprema americana.
Ruth si laurea negli anni Settanta come la migliore del suo corso, eppure le discriminazioni di genere non tardano a farsi notare quando uscita dall’università non riesce a trovare lavoro in nessun ufficio legale ed è costretta a ripiegare nell’insegnamento.
A proposito dell’impiego che ottiene, inoltre, le viene detto che prenderà il posto di un uomo di colore, poiché in quanto donna è la persona che più si avvicinava a un nero per continuare con una parvenza di progressismo.
Così, nonostante durante gli anni accademici abbia anche aiutato nei suoi studi il marito Martin (interpretato da Armie Hammer) colpito da una malattia, dopo la laurea lui ha il lavoro che desidera e può fare pratica come avvocato, mentre Ruth svolge una mansione che la costringe a stare dietro le quinte, insegnando ad altri a diventare ciò che avrebbe voluto essere lei.
A distanza di più di dieci anni, ciò rende la protagonista una donna insoddisfatta, facendola scontrare anche con la figlia adolescente che vuole combattere per l’uguaglianza di genere direttamente, andando alle manifestazioni e ribellandosi a qualsiasi commento sessista ricevuto per strada con una sfacciataggine che stupisce la madre. Ciò riporta alla mente di Ruth una frase sentita a lezione tanti anni prima:
La legge non si fa in base al tempo del giorno, ma al clima di un’epoca.
Mentre la società è ormai cambiata, come dimostra il carattere combattivo e sicuro di sé delle nuove giovani donne, le leggi invece sono rimaste le stesse.
L’inizio della sua battaglia per combattere le discriminazioni di genere, però, non riguarderà una norma che danneggia le donne, bensì gli uomini.
Si tratta, infatti, di un ricorso contro un passo del codice tributario che non consente nessuna agevolazione fiscale agli uomini nubili che assumono un infermiere per prendersi cura di un proprio caro non più autosufficiente. Ovviamente ciò è il frutto di una mentalità per cui sono soltanto le donne quelle disposte ad occuparsi dei genitori anziani nella propria casa.
Così Ruth ricomincia la sua lotta, grazie anche a un marito avanti per i canoni dell’epoca, il quale oltre a dividersi con lei i compiti in casa, non soltanto la spinge a combattere per quello in cui crede, ma la affianca nel processo.
Di certo però, fa riflettere il fatto che considerate le quasi duecento leggi che differenziano sulla base del sesso a svantaggio soprattutto delle donne, un cambiamento sia avvenuto soltanto a partire da un caso legato a una discriminazione di genere nei confronti di uomo.
Allo stesso tempo, ciò sottolinea come combattere il maschilismo sia qualcosa che riguarda tutti, perché determina un’ingiustizia che rappresenta una gabbia sia per le donne che per gli uomini, in quanto lega l’appartenenza ad un determinato genere a differenti funzioni sociali.
Anche quelle leggi che apparentemente rappresentano un privilegio femminile, esonerando le donne da alcuni compiti, in realtà costituiscono un pretesto per allontanarle da certi settori lavorativi, privandole così della libertà di scelta.
L’impianto del film è molto classico, in linea con i biopic celebrativi di grandi personaggi che hanno cambiato il corso della storia, eroi che lottano contro una società che ingiustamente non riconosce il loro valore, ma che alla fine riescono a ottenere la vittoria anche per il bene comune.
Tra l’altro, in termini numerici le donne sono senz’altro la categoria più discriminata in quanto non fanno parte di una minoranza, ma costituiscono più della metà della popolazione mondiale, e al problema del genere può unirsi anche quello razziale o religioso. Ad “aggravare” ulteriormente la situazione della stessa Ruth, infatti, vi era anche il fatto che fosse ebrea.
Una giusta causa è dunque una buona pellicola con bravi interpreti, che avrebbe sicuramente potuto osare di più in linea con il personaggio rappresentato, in quanto si alternano momenti riusciti ad altri didascalici. In particolare, alcune situazioni del processo finale peccano un po’ nei dialoghi, che appaiono abbastanza telefonati, così come determinati personaggi non vengono molto approfonditi, restando in superficie, in una divisione troppo netta tra “buoni” e “cattivi”.
Si tratta però di mancanze che, considerato il tipo di film, possono essere perdonate, grazie anche ad alcune scene commoventi come quella finale, in cui all’attrice Felicity Jones si sostituisce la vera Ruth che con il suo abito blu elettrico dona un tocco di colore alle bianche scalinate della Corte suprema americana, mentre in sottofondo si ascoltano le parole pronunciate con fermezza dalla stessa Ginsburg nei tantissimi casi seguiti in tribunale.
In uno di questi, di fronte al giudice la donna citò le seguenti parole dell’attivista Sarah Grimké:
Non chiedo alcun favore per il mio sesso. Tutto ciò che chiedo ai nostri fratelli è che ci tolgano i piedi… dal collo.
Il film, inoltre, è stato diretto da una donna, la regista Mimi Leder, la quale anche lei rappresenta un’eccezione, una presenza femminile in un settore come quello registico ancora fortemente dominato dagli uomini.