Ritmo – Daniele Petruccioli
ovvero della disposizione armonica delle parole
Lo scrittore Daniele Petruccioli ci parla di “ritmo”, elemento imprescindibile nella sua scrittura, governata dall’acuta consapevolezza che solo grazie all’“andamento cadenzato” l’autore può catturare l’attenzione e irretire il lettore.
Che cos’è il ritmo? Un elemento fondamentale per le nostre vite, si direbbe, a cominciare dal battito cardiaco. Inoltre è legato al nostro modo di muoverci, di parlare, di camminare, di respirare addirittura (e, a seconda del ritmo con cui respiriamo, cambia anche il nostro umore). Infine ha molto a che fare con quasi tutti i campi della nostra creatività: il canto, la danza, la scrittura (in versi e in prosa), la recitazione, il cinema – perfino dei colori dei quadri a volte si dice che “hanno un ritmo”.
Eppure, una cosa in apparenza così profonda e pervasiva – o forse chissà, proprio per questo – assume un’aria quasi troppo vasta, e dunque, a volte, rischia di diventare un po’ generica. Una parola passe-partout, che può voler dire tutto oppure niente.
Andiamo allora a vedere come la definiscono i dizionari.
La parola ritmo deriva dal greco ῥυθμός, che significa ‘movimento regolato, misurato, a battuta o cadenza’, ha la stessa radice di ῥέω (‘scorrere’) e in italiano i dizionari lo legano alla parola “rima”.
Il Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo, uscito tra gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento, definisce il ritmo, citando Quintiliano e un paio di cinquecentisti, come «la proporzione del tempo d’un movimento al tempo d’un altro movimento». E aggiunge, stavolta citando il musicista del Seicento Giuseppe Zarlino: «Ritmo è differente dal metro e dal verso in questo, che il ritmo e più universale, ed ha i suoi spacii liberi e non determinati». La parola compare in molti altri lemmi del dizionario, tra cui armonia, ballo, cadenza, canzone, concetto, fonetico, fraseggiare, ortografia, stella.
Nel Vocabolario nomenclatore di Palmiro Premoli, del 1909 è, tra le altre cose: «disposizione di parole o di note atta a produrre armonia (in poesia, in musica): metro, numero».
Il Dizionario italiano di Tullio De Mauro (Paravia 2000) lo definisce «successione regolare, periodica e cadenzata, scansione» e poi per estensione «andamento, grado di frequenza o d’intensità di un fenomeno».
Nel Dizionario analogico di Donata Feroldi ed Elena Dal Pra (Zanichelli 2011), il termine è legato, oltre agli ovvi metrica, musica, stile, anche a molto sport (nuoto, atletica, ciclismo) nonché a psicologia, racconto, e perfino a sciamano.
Il ritmo, sembrerebbe allora, mettendo insieme tutte queste informazioni, è qualcosa che si relaziona al tempo in modo matematico ma che non si misura con matematica determinazione ed è legato al bello, al musicale, al pensiero e alla parola, alla scrittura e addirittura agli astri, alla magia e al raccontare storie.
Ecco. Per me, il ritmo è legato essenzialmente al raccontare storie. Ho cominciato a pormi il problema del ritmo quando lavoravo in teatro, là dove la parola raccontata è innanzitutto onda sonora, con una sua frequenza e una lunghezza d’onda, un’articolazione più o meno chiara, una maggiore o minore velocità, un timbro, un volume. Ovverosia, la parola è essenzialmente il ritmo che la suscita, il ritmo che quella parola a sua volta esprime, il ritmo che, infine, suscita nell’ascolto degli altri.
Il ritmo è legato al respiro che si prende, al respiro che si emette e che fa vibrare le corde vocali dell’attore. È legato alla studiata velocità e lentezza dei gesti, che aiutano l’orecchio di chi ascolta a concentrarsi più su una parola – o un gruppo di parole – che su un’altra. È legato agli andamenti, se non proprio matematicamente misurabili certo molto chiaramente percepibili, dell’attenzione di chi ascolta la storia, il cui ritmo determina e modifica il ritmo di chi la racconta.
Che sia un bambino che sente la favola della buonanotte o il pubblico a teatro, il ritmo è, sicuramente, qualcosa di molto antico che scorre tra due elementi e li rende proporzionali l’uno all’altro: è l’attenzione che l’artista (o una madre o un padre) suscita con il suo dire, è il dire che si modifica secondo l’attenzione del pubblico (o del bambino).
Da qualunque parte la si guardi, è sicuramente una relazione suscitata da qualcosa di molto fisico – per esempio: da una parte il fiato, dall’altra il timpano auricolare che vibra grazie alle onde prodotte dal primo.
Quando poi ho cominciato a scrivere (traducendo le storie e i ragionamenti altrui, scrivendone per conto mio) questa fisicità, questa sonorità, le avevo già connaturate nelle dita prima ancora di posarle sulla tastiera.
Non ero certo solo. Anche restando all’ultimo quarto di secolo, moltissimi poeti, intellettuali, traduttori si sono occupati di questo elemento. Basti citarne due per tutti: Henri Meschonnic (Politique du rythme, politique du sujet 1995, Traité du rythme des verses et des proses 1998, Poétique du traduire 1999, Critique du rythme 2009, usciti tutti per Verdier) e Franco Buffoni (Ritmologia, Marcos y Marcos 2001). Ma già leggendo Freud e Pasolini mi è sempre stato chiaro che non si convince nessuno, non si trascina nessuno via con noi, sia in un ragionamento, in un racconto, in un versificare, se non lo si trattiene (lo si irretisce, se si vuole) in un andamento cadenzato che lo costringa a intessere con noi una relazione intellettuale ed emotiva.
Il lettore, anche se non se ne accorge, anche se lo ha dimenticato, è ancora lo sciamano che evoca gli spiriti danzando. È ancora l’attore greco che si fa possedere da Dioniso mettendosi la maschera e intonando i giambi martellanti del tragediografo. È ancora il bambino che ti guarda e, se sei bravo, ti dice “ancora”.
Di ritmo mi sono occupato e mi occupo quotidianamente. Quando traduco, cercando di ricreare nel lessico e nella sintassi il sound dell’autore che vado riscrivendo in italiano. Quando insegno, provando a far sentire ai miei studenti la magia profonda, potente, antica che si nasconde nelle parole – oltre ogni possibile definizione da dizionario. Quando scrivo saggi (cioè quando ragiono), cercando di rifare col ritmo della frase quello che voglio far dire al suo significato. E quando racconto storie solo mie, nel tentativo di suonare una musica, prima di tutto, che faccia alzare gli occhi al mio lettore e dire: “ancora”.
da La casa delle madri, TerraRossa, 2020
Del contrappasso da cui era stata colpita sua madre, però, Sarabanda aveva fatto in tempo a godersi lo sbocciare del sorriso. Non che prima Nina non sorridesse mai, anzi: quando cantava, ma soprattutto quando raccontava, sorrideva sempre. Gli occhi le brillavano di gioia. Ma era gioia del racconto, piacere del ritmo, della melodia. Non a caso Nina era traduttrice di romanzi e saggi, ovvero tessitrice di ritmi e melodie, libera dalla costrizione di inventare avvenimenti, libera dai legacci tristi di argomento e trama. Il suo sorriso, la sua luce, però (perciò?) non sembravano raggiungerti, restavano chiusi nel cerchio magico del racconto e della voce che lo esprimeva (forse non raggiungevano nemmeno Nina, chissà; erano del ritmo, più che suoi, lei ne sembrava semplicemente il veicolo, un medium generoso e forte che si lasciava di buon grado attraversare dal racconto perché questo si trasmettesse anche ad altri; era come se il suo sorriso, la sua luce, anticipassero quelli che i ritmi con cui si accompagnavano avrebbero prodotto nell’ascoltatore: un tramite).
Daniele Petruccioli è nato a Roma nel 1970. Traduce da portoghese, francese e inglese. Insegna traduzione all’università di Roma Unint. Ha vinto i premi per la traduzione «Luciano Bianciardi» nel 2010, «Annibal Caro» nel 2021. Ha pubblicato i saggi Falsi d’autore. Guida pratica per orientarsi nel mondo dei libri tradotti (Quodlibet 2014) e Le pagine nere. Appunti sulla traduzione dei romanzi (La lepre 2017), e il romanzo La casa delle madri (TerraRossa 2020).
Di parola in parola è una rubrica a cura di Emanuela Monti. Dalla nota introduttiva è possibile scaricare l’archivio della rubrica, uscita fino al 2019 in forma cartacea nella rivista «Qui Libri».