Claudio Musso
pubblicato 10 mesi fa in Recensioni

“Si vede che non era destino” di Daniele Petruccioli

“Si vede che non era destino” di Daniele Petruccioli

Questa è la storia di una giovane ragazza di provincia che custodisce alcuni segreti. Spesso le orecchie le si chiudono d’improvviso e gli occhi si aprono su un mondo che non è il suo, immerso dentro un argento accecante e inquietante. Si sente come sospesa in trance, mentre tutto intorno cala il silenzio, e aspetta che quel magma luminoso la raggiunga al cuore e la spenga (o la riaccenda?) per sempre. Ci vuole una sberla dei genitori preoccupati per ridestarla. Lei ogni volta si scusa, assicura che non capiterà più e che starà più attenta, tuttavia sa che l’argento tornerà presto a visitarla, perché non può soffocare qualcosa che ormai è parte di lei, che le vive dentro.

Ero lì che guardavo crescere l’ulivo, e a un certo punto è arrivato l’argento. Si è sparso. Si è sparso piano. Non so se è venuto dalle foglie dell’albero. Non ho fatto in tempo a vederlo arrivare. Il cielo si era diviso in centomila pezzettini d’argento gelato e sfarfallante, l’orizzonte non esisteva più, si era fuso con il centro della terra e vomitava argento sulle colline e sopra i campi tutto intorno. Tutto era immobile. Come me. Era come se il mondo volesse salutarmi. Era tanto bello.


In queste impressioni e espressioni così oniriche si innesta anche un altro imprevisto, molto più terreno. La ragazza aspetta un bambino che non è del suo sposo – un uomo più grande di lei, onesto lavoratore dalle ‘’mani d’oro’’, rispettato da tutti. E di questo è sicura come può esserlo ogni donna quando, benché molto giovane, è padrona del proprio corpo. La tradizione del paese prevede che prima ci sia il matrimonio e poi l’ingresso nella casa del marito, che tuttavia non è ancora avvenuto, perché i due possano conoscersi. Come fare? Con chi confidarsi perché questo segreto diventi, nella condivisione, anche di altri?

Di certezze ne ha poche questa quattordicenne che si accontenta di sapere, a grandi linee, le cose dei grandi e che accetta la sorte per quello che è, senza pensare di cambiarla, ancorandola a una frase del gergo popolare come «si vede che non era destino». I ricordi del suo essere altrimenti (non riesce ancora, in questa prima fase, ad accogliere nel proprio lessico la parola “diversa”) la riportano al giorno in cui ha conosciuto quell’altro uomo, ammesso che fosse tale, incontrato nel flusso dell’argento. Un essere grande, spaventoso, quasi ricalcato nel marmo, che è stato nella sua vita il primo a dirle: «quanto sei bella», e che le ha sfiorato solo la testa, quasi come una benedizione. Non è però così convinta di essere un’eletta quando una nuova vita le sta crescendo dentro e ancora si chiede come sia possibile che sia rimasta incinta quando nessuno ha conosciuto le sue intimità.

Si profila dunque una vita da ragazza madre, cosa che in paese di certo non sarebbe ben vista. Il suo sguardo inoltre pullula di bambini, che vede solo lei, le cui risate giocose riecheggiano nel cielo e la fanno sentire meno sola con i pensieri e realtà che altri non capirebbero. In fondo si percepisce ancora piccola, costretta a crescere prima del tempo con nuove responsabilità. Compresa quella, enorme, di diventare madre. Si sa, spesso chi ha vissuto già certe esperienze, come i dolori del parto, indugia sugli aspetti più estremi. Così va il mondo.

Date queste situazioni, non solo difficili da vivere ma anche da raccontare, decide di rinunciare a una parte di sé e smette di parlare con i suoi giocosi compagni e di vederli per non preoccupare i genitori. Perché c’è sempre il rischio di farsi percepire un po’ sbagliata, un po’ malata, quando vedi cose che ti sembrano più vere di quelle che osservano gli altri. Come se non bastasse, se qualcuno ti dice più volte che hai bisogno di cure, alla fine ti convinci che ha ragione. Ma a questo non vuole arrivare. Meglio censurarsi e governare le preoccupazioni, sue e degli altri. Intanto è giunta l’ora della verità e di aprire il proprio ‘io’ interiore al marito senza omettere nulla, anche se rimane il timore di essere ripudiata, forse perché siamo spesso convinti di presumere le reazioni degli altri.

L’uomo la ascolta con un sorriso che a lei pare strano, non di scherno o di compatimento, neanche di condivisione, ma con un’espressione come se niente di quello che sente lo stupisse, come se avesse solo bisogno di capire cosa turba quella ragazza che fa già parte del suo futuro per trovare, insieme, un equilibrio. L’uomo è molto più abile con le mani che con le parole, i silenzi spesso si allungano, nascondono i non detti e il limite del dicibile. I due sono bloccati:

A rigirarci tra le mani una cosa che dovevamo accettare solo noi. La più difficile. Mi sento così cambiata. Sento che penso in modo diverso. Penso parole diverse. Non è doloroso, non è brutto. Però fa paura. Quante volte nella vita dovrò cambiare, quante altre volte dovrò pensare cose diverse?

Lei sa che il cambiamento sarà parte della sua vita. Quello che non sa sono i suoi futuri volti.

Alla fine lo sposo, nel suo infinito amore, decide di accettare questo bambino non suo e si prodiga perché non manchi nulla. Viene quasi da pensare sia stato visitato o, quanto meno, sfiorato anche lui dall’argento. Come spiegare allora la sua scelta?

La vita intanto va avanti, e alcune incombenze amministrative costringono la coppia a un lungo viaggio verso la capitale dove devono registrarsi. Non si trova un posto dove dormire perché tutti gli alloggi sono occupati e la gravidanza è in uno stato avanzato. Quindi ci si adatta. Viene assunta anche una levatrice, una profuga greca, con i suoi occhi densi e il suo sapore di mare, che si rivelerà un valido aiuto ma anche una preziosa precettrice.

Finalmente il bambino viene alla luce ed è subito circondato dall’affetto e dalle premure della famiglia e anche di alcuni pastori nomadi dei dintorni che, pur non avendo una casa, sono pronti a condividere tutto ciò che hanno. Certo, si tratta di un bel bambino, ma questo continuo viavai di visitatori esaspera la madre sempre così riservata delle sue cose. Sembra quasi che sia nata una star, ma forse la gente è solo curiosa di vedere questa creatura nata di fretta e nel posto più improbabile.

Il bambino cresce e coltiva le proprie amicizie in una terra straniera, dove nel frattempo la famiglia ha deciso di trasferirsi, anche se, quando era piccolo, sembrava restìo a integrarsi con gli altri, sempre chiuso nel suo mondo. Cosa che per un attimo ha fatto temere la madre di avergli trasmesso l’argento. Intanto la levatrice insegna al piccolo a farsi traduttore attento di quello che sente e di quello in cui crede: solo così gli altri daranno il giusto valore alle sue parole.

La madre scopre, non senza preoccupazione, che non solo il figlio vede i suoi stessi bambini ma anche che quest’ultimi, da quando non si trovano più nella loro patria, hanno smesso di parlarle. Il figlio la consola con quel modo saggio che hanno i bambini di sminuire i timori dei grandi e con quella sicurezza, fatta di parole semplici, che sanno consolare. Certo che questo bambino ha uno spiccato carisma, sa farsi ascoltare ed essere un porto sicuro. A lui la donna mostra il proprio pentagramma interiore perché possa conoscerne le note, rivelando una maternità – e con esso una visione della vita – non a senso unico:

Anch’io sono piccola. Sono troppo piccola per il mondo. Lo siamo tutti. Il mondo è troppo grande per tenerlo tutto dentro. Ci piacerebbe, ma non si può. Allora, a mano a mano che scopriamo tante cose, altre ci scappano via. Lo fanno per far posto a cose nuove che spingono per poter entrare.

Poi i bambini tornano a fare visita alla madre quando la famiglia ritorna al paese di origine dopo molti anni. Per il figlio si apre un nuovo mondo da scoprire di cui non è mai sazio, comincia a farsi grande, a pretendere le sue indipendenze, a imporsi naturalmente sugli altri con il suo sapere, tanto che la madre, non senza orgoglio, lo vede già ‘dottore’, a stare spesso fuori casa e a chiedere di potere uscire di sera con gli amici, anche facendo tardi. Nel suo entusiasmo lui si dimentica che in un paese occupato, che tiene alla propria lingua e religione come ultimi appigli di identità, se tendi a dare meno importanza a questi aspetti qualcuno potrebbe decidere di fartela pagare.

È un figlio che sa il fatto suo e, quando c’è di mezzo la religione, non si sottrae ad accapigliarsi, e non solo a parole, con quelli che della religione hanno fatto un vessillo. Sentirgli poi pronunciare, tra lo sconsolato e il battagliero, che «bisogna che impariamo a rifare tutto molto più bello», frase che rifrange spesso il desiderio dei più giovani di ricostruire il mondo traballante dei grandi, diventa un segnale di allarme per la donna che sente sempre più accanto a sé un mezzo sconosciuto, quasi irritante. Molte madri dimenticano che i figli si fanno uomini, scelgono la propria strada e la propria identità. Il figlio appare così riuscito, così poco incline ai suoi «si vede che non era destino»:

così calmo, così a suo agio, così padrone di sé, che sembrava dare tutto per scontato, mi ha fatto un po’ arrabbiare. Mi è sembrato egoista, troppo incentrato su se stesso. La sua dolcezza, la sua bontà nei confronti degli altri, mi è sembrata improvvisamente affettata, addirittura finta. Il suo buonumore mi pareva escludere gli altri. Come se partisse da dentro […] Fuori chi c’era c’era. L’apparente dimenticanza di chi hai davanti, ecco, questo mi ha reso furiosa.

Egli non è il più il figlio che poteva controllare quando andava a giocare in cortile, ora ha una socialità esasperata e sembra diventato una sorta di guru – perché tutti lo seguono. Piombano senza preavviso gli amici a cena, tra cui molte donne sole che suscitano un certo bigottismo nella madre, ma si vede che sono persone a posto. Ciò che la preoccupa è la folla che vede intorno al figlio: ti cambia, decide per te, tu credi che ti segua ma in realtà ti spinge dove vuole lei. E in quella folla c’è una grande intellettuale che la osserva da tempo perché ammira questa donna piccola e allo stesso tempo immensa. Tuttavia è chiara la strada che seguirà il figlio: basta osservarlo, ascoltare le voci che in quelle terre circolano su di lui, mentre i suoi bambini mormorano tra di loro parole preoccupate…


Si vede che non era destino di Daniele Petruccioli (TerraRossa Edizioni, 2023) è la storia di Maria, madre di Gesù, catturata e raccontata in una dimensione estremamente umana. Nell’autore, traduttore affermato, si avverte l’amore per le parole, per quelle puntuali che definiscono e per quelle in cerca di significato che spetta ai protagonisti decifrare. Ma questo romanzo ha anche un’altra peculiarità: la capacità di navigare tra le alte e le basse maree del rapporto tra una madre e il proprio figlio, in fondo di tutte le epoche, perché, esulando dal contesto prettamente cristologico, molte madri, come anche molti figli, si ritroveranno nelle quotidianità di sguardi, di confronti, di complicità e incomprensioni, di cui queste pagine intensamente vibrano.

Dal punto di vista narrativo le mani di Petruccioli sfiorano, per così dire, i tasti bianchi del pianoforte facendo risuonare la scala naturale di una storia che conosciamo tutti dai Vangeli. Ma toccano, al contempo, quelli neri che producono, rispetto alla melodia classica, suoni più bassi o più alti di mezzo tono, rendendola ora più terrena, ancorata a una realtà quotidiana, ora più protesa verso l’alto, vibrante del virtuosismo dell’invenzione letteraria. In questa alternanza di noto e ignoto, di storia e controstoria, in questo viaggio mentale di una Maria, bambina prima e donna poi, si rivela la cifra di questo testo che getta un ponte tra filologia e anacronismo per aprire le pagine di un ‘Vangelo secondo le madri’ che è sempre un racconto duale, di tradizione e di cambiamento.