Culturificio
pubblicato 2 mesi fa in Di parola in parola

Silenzio – Carmen Verde

ovvero la Magnifica Illusione

Silenzio – Carmen Verde

La scrittrice Carmen Verde ci parla di “silenzio”, poiché nella sua prosa il “non detto” è un imperativo predatorio


Il giorno che il prestigioso Circolo Hottingen di Zurigo invita Robert Walser a leggere in pubblico qualche pagina dalle sue opere, lo scrittore non può proprio permettersi di rifiutare. Ma nemmeno può permettersi un biglietto ferroviario. Decide, allora, di fare il viaggio a piedi. La distanza da Bienne – dove lui si trova – a Zurigo è di oltre cento chilometri (secondo Google Maps ancora oggi il percorso più breve richiede quasi un giorno di cammino). Arriva in tempo, ma talmente sporco e stremato che il direttore del Circolo si guarda bene dal farlo salire sul palco. “A causa di un’indisposizione, lo scrittore non potrà essere presente” viene annunciato al pubblico, che già sta prendendo posto in sala. Qualcun altro leggerà al suo posto. Per nulla contrariato, anzi placidamente seduto in prima fila, Walser ascolta la lettura delle sue pagine senza dire una sola parola, e senza che nessuno lo riconosca.

Sono venuta a conoscenza di questa piccola storia del tutto casualmente e, pur non potendo garantirne l’autenticità, trovo che racconti benissimo, come meglio non si potrebbe, la vita, l’opera e i silenzi di Robert Walser.

Settimo di otto figli, Walser nasce silenzioso. Appena venuto al mondo, non piange. Lo mettono a testa in giù, gli danno dei buffetti, ma niente. Il vagito arriva solo dopo molti, interminabili secondi. Quel silenzio, appreso nel ventre materno e che avvolge il suo corpo di neonato come una seconda pelle, sarà per sempre la sua cifra, la sua parola.

Tra gli scrittori, gli ‘urloni’ e i ‘silenziosi’ (per usare le eterne categorie walseriane) si riconoscono dalle loro pagine: i primi scrivono o, peggio, spiegano tutto, gli altri scrivono poco o nulla per scrivere tutto. Davanti alle pagine dei silenziosi si sta come davanti a un vetro appannato. Sono pagine mute, inadempienti, leggendo le quali si rimane sospesi, come per un oscuro sortilegio.

Io sto dalla parte dei silenziosi. Se non per talento, almeno per desiderio è a loro che mi sento vicina. Mi illudo, perciò, di aver scritto un romanzo silenzioso, nonostante la parola ‘silenzio’ non ricorra così spesso in “Una minima infelicità”. Dopotutto, il silenzio è un atto del pensiero, non del linguaggio.

Se in letteratura tutto è illusione, allora il silenzio della pagina è la Magnifica Illusione: testo occulto, segreto, scritto in un suo indecifrabile linguaggio.

Sulla pagina, poi, il silenzio è predatore: passa in rassegna tutte le parole e tutte le uccide, le cancella senza lasciarne traccia. Per quanto ne so, nel mio romanzo ha consumato i suoi crimini in fondo a certe voragini bianche tra un paragrafo e l’altro. Buchi profondissimi e senza eco, in cui ho lasciato precipitare frasi intere. Ogni scrittore è, a diversi gradi di efferatezza, un assassino. Smembra periodi, mutila capitoli. “L’autore è l’uomo col pugnale che va di notte per le strade, mascherato, silenzioso; le parole gli dicono: uccidi quelle parole lì!”, annota acutamente Manganelli. Confesso di averlo fatto anch’io. A mia discolpa, posso dire di aver creduto che fossero le parole stesse a immolarsi, a staccarsi volontariamente da quelle dell’ultima riga, come intuendo che il loro sacrificio avrebbe fatto risuonare con più forza le sorelle sopravvissute.

Tralasciando, però, queste ipotesi delittuose, mi sembra che nel mio piccolo romanzo il silenzio si infiltri tra le pagine, avvolga le frasi, ne abbassi il volume. Impossibile adesso inventariarli tutti, quei silenzi, ma forse vale la pena aggiungere un paio di cose. La prima è che il tempo verbale preferito dai silenzi di “Una minima infelicità” è il passato remoto. Remoto è, per esempio, il silenzio che risuona nella casa di Annetta, la grande casa familiare – dedalo di stanze dalle pareti scrostate, eppure memori di una passata agiatezza – su cui splende il mistero della decadenza. Remotissimo il silenzio delle fotografie che Annetta continua a guardare: istanti di una vita minima, attimi in cui lei e sua madre (sempre lei e sua madre) sono ritratte in una immobilità cristallizzata. Imbalsamata.

Questo conduce alla seconda cosa che so dei silenzi del mio romanzo: condividono la grammatica del ricordo.

In un film di Marguerite Duras, “La donna del Gange”, c’è una scena in cui un uomo guarda fisso in direzione del mare, mentre due voci fuori campo si chiedono cosa stia effettivamente guardando. Il movimento dell’acqua? Le luci riflesse? “Guarda il ricordo?” chiede alla fine una delle due voci. E l’altra risponde: “Sì, forse guarda il ricordo…”.

In fondo è questo, per me, la scrittura: il ritorno sulla pagina di cose che sembravano sparite dalla memoria e che torno a riconoscere solo dopo averle scritte. Scrivere, per me, è un lungo, silenziosissimo ricordo.


Da Una minima infelicità, Neri Pozza, 2022


Chiusi  a   chiave   una   dopo   l’altra   le   stanze (sentivo   che   me   ne   davano   il 

permesso, mi si arrendevano con sollievo), finché la casa si ridusse alla mia camera, alla cucina e al minuscolo bagno accanto al tinello.  

Dietro ogni porta, accostati anche gli scuri, tutto restò al buio, nemmeno un filo di luce, fino a sparire completamente: poltrone, divani, letti, armadi. Immaginai   che   i   mobili   potessero   sentire   i   miei   passi   allontanarsi   nel corridoio.  

Il silenzio che regnava adesso nella casa (nella mia ipotetica casa, fatta di fantasmi  dietro   porte   chiuse), un   silenzio   pieno   di   intimità e reciproca compassione, non aveva nulla a che vedere con quello che c’era sempre stato tra me e mia madre, carico solamente d’incertezza.  

 Evocando le stanze nella mia memoria, continuavo a vederle ancora integre e perfette, senza nessun segno di deterioramento. Presi a giocare con loro quel gioco iniziato col mio diario anni prima (secoli prima, mi pareva): le moltiplicavo nel   pensiero, ritagliavo   nel   loro   perimetro   altre   minuscole stanze, visibilmente connesse le une alle altre, eppure tutte irraggiungibili. Stanze da angeli. 


Carmen Verde vive a Roma. Una minima infelicità, candidato al Premio Strega 2023, è il suo primo romanzo. Sul resto non ha niente da dire.


Di parola in parola è una rubrica a cura di Emanuela Monti. Dalla nota introduttiva è possibile scaricare l’archivio della rubrica, uscita fino al 2019 in forma cartacea nella rivista «Qui Libri».