Culturificio
pubblicato 1 anno fa in Recensioni

“Sillabario all’incontrario” di Ezio Sinigaglia

“Sillabario all’incontrario” di Ezio Sinigaglia

Nel capitolo intitolato a Freud di questo Sillabario all’incontrario (Terrarossa), Ezio Sinigaglia riflette sul carattere sviante e addirittura menzognero del titolo di molte opere letterarie. Leggendo Vita e opinioni di Tristram Shandy, ad esempio, delle opinioni di Tristram Shandy non verremo a sapere proprio niente e «quanto alla vita, a malapena riusciremo ad appurare che è nato». E I delitti della rue Morgue – commessi da uno scimmione – non sono, in senso proprio, “delitti”, come è incoraggiato a credere inizialmente lo sprovveduto lettore. Soffermandomi su questa riflessione, non ho potuto fare a meno di chiedermi se non la si potesse applicare al titolo stesso del romanzo di Sinigaglia: il libro che tenevo in mano era davvero un sillabario? Un “sillabario all’incontrario” perché partiva dalla z di “zoo” per arrivare, con il suo passo elegantemente irregolare, alla a di “altrove”?

Più ci pensavo, e più mi pareva che, sottolineando l’inaffidabilità dei titoli di Sterne e di Poe, Sinigaglia mi suggerisse che anche il titolo del suo romanzo apparteneva alla stessa famiglia, racchiudendo volutamente il seme di un errore che la lettura dell’opera era destinata a correggere.

Qual è – o piuttosto qual era, nel mondo desueto della scuola otto-novecentesca – lo scopo del sillabario? Quello di evidenziare agli occhi dello scolaro la tranquillizzante coincidenza tra la parola scritta e la realtà designata da quella parola. È una coincidenza che Ezio bambino assapora con delizia nella parola “mucca”.

La prima parte della parola, lunga, grossa e cupa, era la mole della mucca, ed il suo verso: la seconda parte, brevissima, da pronunciarsi proprio in un soffio, senza echi, era la dolcezza mansueta dell’espressione dei suoi occhi: muuuuuu era lo spavento, ca il sollievo, muuuuuu il gesto di ritrarmi, ca quello di riavvicinarmi per una carezza.

Esaminando altre parole, Ezio scopre invece le possibilità offerte da una pluralità di significati: è la via attraverso la quale accederà allo humour. Il “gesso” può indicare tanto il gessetto con cui si scrive alla lavagna quanto l’imponente armatura in cui viene rinchiusa una gamba rotta; la “linguetta”, che il padre e il fratello maggiore utilizzano per le loro operazioni filateliche, è omonima di quella ospitata dalle loro bocche. Accade così che il religioso silenzio in cui padre e fratello incollano i francobolli sull’album sia occasione del primo Wiz, del primo gioco di parole di Ezio: «Che silenzio! Avete perso la linguetta?»

La sua predilezione per le polisemie lo guida precocemente verso un uso paradossale ed eversivo del sillabario. Il sillabario invece, di per sé stesso, ha una sua precisa vocazione all’ordine, alla conformità, alla stabilità: afferma la coincidenza tra le parole e le cose senza lasciare spazio alla minima incertezza. Questa constatazione mi ha indotto a pensare che il titolo del Sillabario all’incontrario andasse inteso come un titolo carico di sterniana ironia. I delitti della rue Morgue non sono delitti, e quello di Ezio Sinigaglia non è un sillabario, sia pure all’incontrario. È piuttosto il contrario di un sillabario: il suo scopo è quello di seminare dubbi, perplessità e vertigini in quella rappresentazione della vita quotidiana che i sillabari da sempre hanno raggelato in una statica serie di immagini rassicuranti e convenzionali.

Con i sillabari, l’anti-sillabario di Ezio Sinigaglia ha in comune la disposizione della materia. Ogni lettera è esemplificata da una parola, di cui è l’iniziale; da quella parola prende le mosse una digressione o una narrazione, che ha una propria autonomia (un principio e una fine) ma anche qualche aggancio, più o meno visibile, con quel che precede e quel che segue. Il filo conduttore ce lo indica l’autore stesso e ha a che fare con il periodo in cui il libro è stato scritto, tra il 1996 e il 1997. Un Ezio Sinigaglia prossimo alla cinquantina avrebbe attraversato a quel tempo, in seguito a qualche banale problema di salute, una crisi di depressione; su consiglio del suo medico, si sarebbe dedicato allora alla scrittura autobiografica, per chiarire le origini prossime o lontane del suo disagio. L’amato modello del romanzo poliziesco gli avrebbe imposto di cominciare dalla fine – dalla lettera zeta e dalla sua condizione presente – come il giallo comincia dal delitto, per poi procedere a ritroso e portarne alla luce le cause. All’identica età di Ezio, d’altronde, Stendhal poneva mano, con intenzioni non troppo diverse, alla Vita di Henry Brulard.

Mi sono seduto sui gradini di San Pietro in Montorio – annotava nella prima pagina – e ho pensato per un’ora o due a quest’idea: sto per avere cinquant’anni, sarebbe davvero ora che mi conoscessi. Chi sono stato? Chi sono? In verità, sarei ben imbarazzato a dirlo.

I primi lemmi dell’anti-sillabario – zoo, vegetazione, umanità, tetto, silenzio, rimosso, quattrini – compongono davanti ai nostri occhi, come un mosaico, l’immagine della vita che Ezio conduce a Geremeas, in Sardegna, nella casa isolata sul mare dove si è rifugiato per fuggire la «fragorosa volgarità» della vita milanese. Una casa che è, certo, «immersa nella dolcezza della vita vegetale come un paradiso», ma che si discosta molto dal sogno del nostro autore, fatto di spazi silenziosi, accoglienti e sobriamente arredati. Tra gli invadenti animali domestici «con tutto il loro seguito volante e risucchiante di insetti e parassiti, di piatti e di padelle, di ciotole, di cucce, di cassette, di scatole di plastica e cartone» e i non meno invadenti ospiti umani che affluiscono nel periodo estivo, la dimora del nostro scrittore finisce con l’essere un luogo caotico quanto la stazione di Milano. E forse tra le cause meno soggettive e patologiche del disagio di Ezio vi è la certezza del più vasto e irreparabile degrado che circonda il suo insoddisfacente ambiente domestico:

Vivendo in un paradiso come questo si perde ogni speranza in un’eventuale redenzione della specie. Non c’è niente da fare, niente. L’umanità è mossa da un odio insondabile e feroce contro tutto ciò che può esser sospettato d’essere bello, pulito e dignitoso. Agosto porta valanghe di umanità sulla mia spiaggia, e valanghe di rifiuti. I rifiuti sono il simbolo e la nemesi della nostra civiltà, del destino tragico e distruttivo della specie.

Procedendo a zig-zag tra passato e presente, nei lemmi successivi Ezio Sinigaglia ci porta nel mondo della sua infanzia. La petulanza enciclopedica del fratello saccente, ammirato e coccolato quando rovescia sul nucleo famigliare masse indigeribili di dati d’ogni genere, fa da contraltare al culto dei genitori per l’enciclopedia Treccani. L’indifferenza di Ezio bimbo alla borghese Religione del Sapere Utile che lo circonda è la chiave della sua personalissima idea di felicità:

Vivevo come un piccolo animale, cioè né più né meno come un bambino, concentrato esclusivamente sul piacere fisico e sulla rasserenante dipendenza dagli adulti.

Curiosamente, in questo libro scritto per individuare le radici di uno stato di sofferenza, la felicità è assolutamente centrale. La beatitudine infantile, arroccata nel suo nido di tenerezza e totale irresponsabilità, è la pietra di paragone che mette in luce la vanità delle ambizioni umane: di quell’accanimento a inseguire il denaro che si traduce in devastazione della natura, così come della ricerca, per Ezio meschina e risibile, di ogni prestigio culturale e sociale. Beatitudine primigenia, è anteriore all’avvento dei ruoli che in seguito pretendono di definire, di etichettare, di orientare istinti, pulsioni e desideri. In guerra con i ruoli, che tende a sovvertire, quella beatitudine può resuscitare inopinatamente al di là dell’infanzia: come avviene quando Ezio vive la sovrumana intensità di un amore insieme materno e paterno per il figlio adottivo Umberto. Ma anche un’altra forma di felicità traspare in ogni pagina di questo libro: la felicità di esplorare, per tradurli in racconto, gli infiniti paradossi di cui si compone il tessuto della nostra vita. Una mappa dei paradossi che Ezio prende in esame rischierebbe di essere un po’ come quella mappa dell’Impero di cui parla Borges, che finiva per coincidere con l’Impero stesso; limitiamoci dunque ad evocarne qualcuno. Paradossale è la figura memorabile di Clara, la donna delle pulizie che da quando ha saputo di essere portatrice di un’infezione del sangue che la contamina, si è trasformata in una sorta di Giovanna d’Arco in guerra contro ogni contaminazione; è diventata così la vestale della lavatrice, della «macchina che prende in carico le coscienze sporche, le maltratta, le rimbrotta aspramente, le turba, le sconvolge, le sottopone al vortice nauseante della penitenza, e le restituisce piangenti e immacolate». Paradossale l’incanto dell’«amore pirata» che si consuma clandestinamente, nella notte, con ragazzi sconosciuti, tenerissimo e predatorio al tempo stesso; paradossale il destino di Maigret, eroe carissimo ad Ezio, che per stanare l’assassino deve riuscire a identificarsi con lui, trasformandosi – insieme al suo lettore – da investigatore in complice del delitto.

Gli ultimi, estremi paradossi con i quali si chiude – ma anche si riapre, per offrirsi a una nuova e più consapevole lettura – il Sillabario di Ezio Sinigaglia, concernono gli animali domestici, che lo inauguravano alla voce “zoo”, e l’Aldilà, inteso stendhalianamente come quella fase della vita terrena successiva alla cinquantina in cui tutto perde di intensità, di slancio vitale. È nel capitolo “Calorie” che i gatti e i cani che popolano la casa di Geremeas, e che in “Zoo” sembravano suscitare in Ezio quasi soltanto insofferenza, diventano oggetto di un’osservazione, o meglio di un’esegesi, amorosa e puntigliosissima. La virtuosistica interpretazione di ogni sfumatura dei miagolii della gattina Scotty conduce Ezio fuori dal territorio del linguaggio umano, in un mondo di «calde e palpitanti morbidezze» che ricorda la passività felice delle coccole infantili: il sillabario delle parole cede il posto a un sillabario delle carezze che è il solo a rendere accettabile il peso quasi insostenibile della condizione umana e l’entropia dell’inevitabile invecchiamento. Il solo? Forse no. Nel capitolo “Aldilà”, descrizione del passaggio «dalla terra dell’ora alla terra dell’ormai», si profila un’altra via d’uscita: quella, tutta proustiana, della scrittura. Varcata la linea d’ombra della cinquantina, «scrivere è la sola cosa che renda vivibile la vita». Si chiude un cerchio ed Ezio ritorna all’alfabeto umano; ma all’alfabeto simbolicamente rovesciato del suo Sillabario all’incontrario, del suo anti-sillabario.

di Mariolina Bertini