Solare – Cristina Marconi
o dell’“eliotropismo” letterario
La scrittrice Cristina Marconi ci parla di “solare”, un aggettivo che definisce la sua naturale propensione a cercare la luce nel buio delle storie narrate
Sono una lucidatrice di vite, una sprimacciatrice di realtà: due dei miei racconti, Putzwahn e Autobus rossi e altri giocattoli sparsi, parlano del rapporto con la casa, con gli oggetti, un rapporto premuroso che è in parte anche il mio e che nasce, credo, dall’urgenza sviluppata fin dall’infanzia di mettere a tacere l’ombra. Una deriva molto pericolosa quando si scrive: santini, stucchi e morali fasulle sono la conclusione naturale della tendenza ad abbellire e i miei primi passi letterari, mossi quando ero già una donna adulta e fortunatamente mai pubblicati, ne risentono. O almeno, ero io a risentire di questa incapacità di pensare il nero, di portare alle estreme conseguenze una situazione pericolosa. Facevo passeggiare i personaggi fin sull’orlo del precipizio ma poi non riuscivo a lasciarli cadere. Vederli soffrire mi faceva stare fisicamente male, come quando le vertigini ti costringono a distogliere lo sguardo per cercare di muovere almeno qualche passo verso un luogo sicuro.
Se i temi ricorrono, è però giusto fermarsi a osservarli invece di rimuovere tutto. Due cose fasulle non fanno una verità ed è per questo che ho cercato di mettere a fuoco quello che c’era sotto la tendenza all’eliotropismo nelle mie narrazioni in modo da individuare una poetica, coerente seppur ondivaga, nelle pagine scritte e in quelle da scrivere. Alina, la protagonista di Città irreale, è una falena che ruota contro la grande lampadina londinese e non si scoraggia neppure quando ci va a sbattere. L’idea di una città luminosa ed elettrica torna poi in A Londra con Virginia Woolf, dove, nel ricostruire la visione della scrittrice, mi sono esposta alle abbaglianti e benefiche radiazioni della sua prosa inarrivabile. Non sorprende che ne sia uscita ancora più segnata dall’estetica del chiarore: l’aria brillante come champagne, il giorno etereo e disincarnato, le strade argentate, l’intensità delle stelle basse, l’illusione di veder danzare il mondo, lo sciame di luci non sono immagini da cui ci si possa liberare.
La ricerca della luce ovviamente funziona meglio quando intorno c’è il buio e Come dirti addio, antologia di lettere che raccontano la fine di un amore, di buio ne raccoglie molto. In tutte le lettere si trova però un istinto comune, che è quello di mettersi in una posa favorevole, di venire bene, di essere potenzialmente rimpianti, e di dare una dignità, e quindi una luce, ai propri sentimenti: gli addii raccolti, e in particolare Charlotte Brontë che non vuole essere “schiava di un rimpianto” e la Albertine proustiana che in dieci righe raccoglie un mondo e fugge via dicendo “ti lascio il meglio di me” sono “lampi che illuminano una vita intera, pur nella loro oceanica diversità d’intenti”, scrivo nell’introduzione. “Nel momento della caduta, lo sforzo d’eloquenza è massimo, la ricerca di un senso cruciale, anche per contrastare, attraverso un atto estetico solenne, la tristezza e lo squallore che avvolgono chi soffre”. In ogni lettera si rimpiange la luce di quando l’amore splendeva e proprio la luce si cerca di recuperare attraverso la scrittura: un’operazione che, anche quando le lettere sono vecchie di millenni, mi pare riuscitissima e tutt’altro che illusoria.
Non avevo mai considerato l’autofiction come un genere adatto a me, mentre il racconto del dolore non era praticabile per due ragioni: una l’ho esposta poco sopra, la seconda è un’obiezione di ordine morale, l’orrore per la morbosità. Tuttavia, in un periodo in cui la materia di vita si era fatta particolarmente cupa – malattie intorno a me, vicino a me – il tema del nero era diventato ineludibile, e l’ipotesi di lavorare sui chiaroscuri una scelta di desolante banalità. Ci voleva qualcosa di più forte, ci voleva un abbaglio.
La chiave per Stelle solitarie me l’ha data un verso di Giovanni Raboni, tratto da Ogni terzo pensiero e intagliato nella mia memoria ormai da molti anni. L’ho usato in esergo:
… nel deperibile ardore
della ritrovata solarità
d’ogni veggenza si sbarazza il cuore.
La componente marcatamente spaziale di Houston, una città in cui pure lo stadio si chiamava Astrodome, ne ha fatto il teatro perfetto di un viaggio in cui il Graal di turno è la solarità, quella declinazione radiosa della bellezza, la somma vitalità, che la protagonista del libro, Vera, incarna per natura e che la malattia, sua e di altre persone care e giovani, minaccia di intaccare: il “lato notturno della vita”, lo chiama Susan Sontag, arrabbiata perché ai malati di cancro viene negata la consolazione estetica che invece i tubercolotici – come suo padre – hanno avuto nell’immaginario di altri tempi. Condivido la sua indignazione. E quindi mi metto in strada, per vedere se il raggio verde si può ancora scorgere nonostante tutto, se c’è una soluzione all’incupimento, una fuga possibile dal sapore polveroso che la realtà sta prendendo. Ci siamo addentrate in un luogo come il Texas, che l’immortalità la insegue in due modi: con il mito, ossia la cristallizzazione del destino umano in una figura definita, e con l’ambizione ad andare più in alto, attraverso l’arte, la scienza, la tecnica. Proprio lì i versi di Raboni hanno trovato una loro corrispondenza nei quadri di Cy Twombly, grandi spazi di salvezza in cui addentrarsi come in un ricordo, in una visione.
La dimensione solare non è una patina, né un rifugio, ma una forma più alta di conoscenza, qualcosa di vicino, immagino, a quel misticismo che non mi appartiene e che in certo momenti della vita avrei tanto voluto. Dei santi, alla fine, mi interessa solo l’aureola.
Da Stelle solitarie, Einaudi, 2024
Uno dei pensieri più insopportabili, quando succede qualcosa di brutto a qualcuno, è che quella persona si trasformi in una storia triste. Fin da bambina la cosa che mi angoscia di più è l’assenza di grazia, di redenzione, di riconoscimento; l’idea che una vita possa essere una piccola vita, meschina, mi terrorizza. Così come mi terrorizza che la ricchezza di un essere umano si scolorisca alla luce di una malattia, che si chiuda su una nota mesta, come fosse una metamorfosi, un incantesimo, una dannazione. Preservare la dignità solare di ogni esistenza al di là di qualsiasi finale tragico è una mania. Per questo la bellezza e la grazia mi rassicurano: sono la gloria minima che tutto salva.
Da narratrice mi piace unire i puntini, scoprire il disegno, immaginare che ce ne sia uno. Houston in questo mi ha superata, presentandomi una storia con una trama già scritta, un cast bellissimo alle prese con problemi enormi e una certa idea di mondo sulla quale riflettere.
Cristina Marconi (Roma, 1979). Giornalista e scrittrice. Nel 2019 esordisce con Città irreale, Ponte alle Grazie (Premio Rapallo Opera Prima, Premio Severino Cesari, dozzina Strega). Nel 2021 esce A Londra con Virginia Woolf, Giulio Perrone Editore, e nel 2022 Come dirti addio, un’antologia di lettere per la fine di un amore, pubblicato da Neri Pozza. Stelle solitarie, Einaudi, è un’autofiction ambientata in Texas.
Di parola in parola è una rubrica a cura di Emanuela Monti. Dalla nota introduttiva è possibile scaricare l’archivio della rubrica, uscita fino al 2019 in forma cartacea nella rivista «Qui Libri».