Anita Orfini
pubblicato 4 anni fa in L'angolo russo

“Sulla sua cattiva strada”

"La valigia" di Sergej Dovlatov

“Sulla sua cattiva strada”

– Salve a voi – dissi. – Cosa vi rattrista, menestrelli del regime?!

Silenzio. Solo Sidorovskij reagì imbronciato:

– Il tuo cinismo, Dovlatov, supera ogni limite.

È chiaro, pensai, che è successo qualcosa. Che abbiano tolto a tutti il premio di produzione?

Sono settimane complicate quelle che stiamo vivendo e, poiché il riso è il miglior modo per esorcizzare le nostre paure, oggi vi propongo un libricino – piccolo solo nel formato – che spero possa farvi fare una risata: La valigia di Sergej Dovlatov (Čemodan, pubblicato per la prima volta nel 1986 e tradotto in italiano da Laura Salmon per Sellerio editore nel 1999).

All’Ufficio per l’espatrio quella stronza viene a dirmi:

– Ogni emigrante ha diritto a tre valigie.

[…] Protestare non aveva alcun senso. Ma naturalmente protestai:

 –  Solo tre valigie?! Ma come si fa con tutta la roba?

–  Per esempio?

–  Per esempio, la mia collezione di automobiline da corsa…

[…] Dopo una settimana stavo già raccogliendo le mie cose e potei constatare che una sola valigia bastava e avanzava.

Verrebbe forse da chiedersi: ma come è possibile che uno scrittore possa emigrare portando con sé soltanto una valigia? A questa domanda risponde direttamente Dovlatov: quasi tutti i libri che possiede sono proibiti, i suoi manoscritti sono già al sicuro da qualche parte in Occidente, i mobili li ha venduti e il resto, beh, il resto lo ha buttato.

A trovare posto in quella sgangherata valigia di compensato tenuta insieme da una corda da bucato sono dei calzini finlandesi, le scarpe del sindaco di Leningrado, un vestito a doppio petto, una cintura da ufficiale, il giaccone liso di Fernand Léger, una camicia in popeline, un colbacco e dei guanti da automobilista.

Gli oggetti di Dovlatov, che danno poi il titolo a ciascun racconto, non sono oggetti “necessari” ma ricordi della sua Russia, di quella vita nella sua Heimat che si è visto costretto ad abbandonare per avere la possibilità di pubblicare i propri scritti e quindi continuare a essere quello che era e non poteva non essere: uno scrittore. E forse è proprio per questo che sono più necessari di altri.

Tutti gli otto oggetti sono velati da uno strato di malinconica polvere. Una nostalgia silenziosa si àncora alla stoffa e, nascosti fra le pieghe di quei vestiti, Dovlatov adagia con noncurante trascuratezza – solo all’apparenza – i suoi ricordi. Perché, alla fine, sono i ricordi il vero contenuto di questa valigia. Il potere evocativo degli oggetti si posa sugli indumenti che altro non sono che dei pretesti per raccontare delle storie. Affreschi di quel mondo paradossale e grottesco che era l’Unione Sovietica. Il dato autobiografico traspare da ogni parola: la vita modesta, i soldi che non bastano mai, la sua carriera da giornalista, l’incontro con sua moglie. Tutto però incessantemente scandito da una sagace ironia:

Non mi rammarico della povertà che ho vissuto. Se si deve credere a Hemingway, la povertà è una scuola irrinunciabile per uno scrittore. La povertà rende una persona perspicace. Eccetera. È curioso che Hemingway lo abbia capito solo dopo essere diventato ricco…

In La cintura da ufficiale, parla della sua attività di guardia (non poi così infame) in un lager penale. Anche qui, nonostante il lavoro che lo vede dall’altro lato della barricata rispetto ai tipici scrittori dissidenti, rimane comunque lontano da qualsiasi conformismo, perennemente dalla parte dei derelitti, irresistibilmente attratto dai balordi e in generale, come scrive egli stesso, «rabbioso e sensibile alle debolezze umane»:

Di tanto in tanto il detenuto si ricordava di essere matto. Allora si metteva carponi e ringhiava. Gli avevo consigliato di non sprecare le forze. Di preservarle per la visita medica. Non saremmo certo stati noi a tradirlo.

È, quella di Dovlatov, una ricerca stilistica che tende all’essenzialità. Ogni frase costituisce un tassello indispensabile e mai eccessivo nella costruzione del suo piccolo edificio letterario. La sua è una prosa puntuale, dinamica e smaliziata, che vede lo scrittore stesso nel doppio ruolo di protagonista e di osservatore. I vari personaggi che popolano i racconti sono fotografati da poche ma efficaci parole. Di boriosi orpelli stilistici che incastonano le figure in pretenziose sovrabbondanze, Dovlatov, non ne ha bisogno.

Era magrissimo, calvo, ma con una ghirlanda di ciocche maculate che spiovevano sopra le orecchie. Cominciai a chiedermi se poteva pettinarsi senza togliersi il cappello.

L’umorismo è per Dovlatov il salvifico strumento che ci permette di guardare, ridendo, a quel dramma che è la vita.

Il talento di Čerkasov estasiava Peter Brook, Fellini e De Sica. Il talento di mio padre lasciava perplessi anche i suoi genitori. Čerkasov era noto in tutto il paese come attore, deputato e combattente per la pace. Mio padre lo conoscevano solo i vicini di casa come ubriacone e nevrastenico. Čerkasov aveva la dacia, la macchina, l’appartamento e la notorietà. Mio padre aveva solo l’asma.

Il primo a prendersi in giro è difatti l’autore stesso che non si sottrae al meccanismo autoironico ma, al contrario, se ne serve per rivelare tanto le proprie fragilità quanto la condivisione dello stesso posto all’interno del consorzio umano rispetto agli altri strampalati protagonisti:

Noi contiamo sulla sua consapevolezza. Anche se lei è una persona piuttosto superficiale. Le notizie di cui disponiamo su di lei sono più che contraddittorie. Concretamente: amoralità quotidiana, ubriachezza, barzellette rischiose…

Avrei voluto chiedere cosa ci fosse di contraddittorio. Ma mi trattenni. Tanto più che il maggiore aveva tirato fuori una cartellina piuttosto voluminosa. Sulla copertina si distingueva a grandi lettere il mio nome. Fissavo senza sosta quella cartellina. Provavo quello, suppongo, che proverebbe un maiale nel reparto affettati di un alimentari.

A scorrere sulle pagine di questo libro è poi lei, la medicina contro tutti i mali: la vodka. Pretesto per ubriacarsi ma anche ultimo rimedio per estinguere gli incendi che ognuno si porta dentro.

– Ordiniamo qualcosa di croccante. Hai fatto caso che mi piacciono tutte le cose croccanti?

– Sì – dissi. – Ad esempio la vodka «Stoličnaja».

Borja mi zittì:

– Non essere blasfemo. La vodka è una cosa sacra.

Con un triste rimprovero aggiunse:

– Nella vita ci sono cose che, almeno in parte, vanno prese sul serio…

I racconti ci regalano inoltre un quadro personale della Leningrado dell’epoca e di tutto quel brulicante sottobosco umano che la rende viva. Lo sguardo di Dovlatov non giudica. I protagonisti delle sue storie sono spesso persone con profonde debolezze e che condividono con lo scrittore la stessa realtà che è vista per quello che è, né più né meno. L’assoluzione delle loro fragilità in quanto uomini e in quanto donne rappresenta il punto massimo della visione della vita di Dovlatov. Egli non giustifica i reati da loro commessi o i loro comportamenti scorretti ma, tramite l’uso dell’ironia, ribalta il punto di vista del lettore che si ritrova così quasi a fare il tifo per quei piccoli banditi con bonaria clemenza. L’autore scardina perciò la morale non creandone una nuova ma sostituendo le lenti attraverso cui guardare il mondo. Non è dunque una visione manichea della vita, la sua. Anzi, il suo essere privo di certezze e di idealizzazioni lo rende ben lontano da ogni facile sillogismo. E se i vestiti dell’emigrante sono metafora dei ricordi, la valigia che li custodisce rappresenta invece quell’atavica insofferenza nei confronti delle convenzioni e delle regole che fanno di Dovlatov l’uomo e lo scrittore che è stato. La sua è una condizione che non scaturisce né si esaurisce, come si potrebbe pensare, nel contesto del regime. No. Egli porta con sé questa insofferenza anche in America, in quel paese che per molti coincide con una dream land ma che per lui è al di fuori di qualsiasi mito patinato.

Osservai la valigia vuota. Sul fondo Marx. In cima Brodskij. E tra loro la mia unica, inestimabile, irripetibile esistenza. La chiusi. All’interno rimbalzarono sonore le palline di naftalina. Il mucchio variopinto del suo contenuto giaceva sul tavolo della cucina. Era tutto ciò che avevo messo insieme in trentasei anni, durante tutta la mia vita in Russia. Pensai: ma davvero è tutto qui? E risposi: sì, è tutto qui.

E voi? Cosa mettereste nella vostra valigia?

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