Ludovica Valentino
pubblicato 5 anni fa in Altro

Sulla superficie dei corpi

introduzione alla performatività di genere

Sulla superficie dei corpi

Il concetto di genere viene spesso ridotto alla semplificazione che prevede una determinazione naturale e del tutto esclusiva nella dicotomia di due possibilità, il maschile e il femminile. L’azione replicata nel tempo garantisce valore di autorità ed effetto di naturalizzazione, ma le identità subiscono continue contaminazioni, dimostrandosi complesse e transitorie e limitare lo spazio di azione simbolica del genere in categorie fisse e immutabili è da considerarsi come un’azione oppressiva che tende a svalutare il potere dell’agentività in un contesto sociale e culturale. Sostenere questa teoria significa dare credito al concetto di performatività di genere.

Il genere è performativo nella misura in cui gli atti di genere nella loro ripetibilità si dimostrano essere creatori del contesto normativo stesso e quindi il sesso nella sua materialità corporea si costruisce come una norma a partire dalla capacità performativa del discorso.

Iniziamo a introdurre compiutamente la nozione di performatività, che non appartiene originariamente alla sfera degli studi antropologici e sociali, bensì all’indagine sul linguaggio e specificatamente agli atti performativi descritti da John Langshaw Austin nel contesto più ampio della teoria degli atti linguistici (si fa in questo caso riferimento allo studio di Austin edito in Italia con il titolo: J. L. AUSTIN, Come fare cose con le parole, Genova, Marietti, 1987). Attraverso un atto performativo il soggetto compie ciò che dichiara e di conseguenza produce, attraverso la dichiarazione stessa, un fatto reale.

È possibile interpretare il contesto normativo di genere attraverso strutture analoghe. La teoria della performatività di genere mette in discussione l’idea di una totale interiorizzazione della verità, sostenendo che l’essenza intima del genere sia in realtà il prodotto di una serie di atti reiterati, che dimostrano la loro efficacia nella dimensione rituale della ripetizione. È dunque per mezzo di un processo di costruzione performativa che gli individui vengono percepiti come se fossero ontologicamente dati perché, di fatto, a priori, soprattutto per quel che concerne la questione dell’identità di genere, sembra non sussistere una nozione di soggetto ontologicamente fondato. Ciò che viene intesa come caratteristica interiore è dunque in realtà il frutto dell’adozione di una serie di comportamenti ripetutamente riprodotti e la correlazione tra identità sessuale ed eterosessualità non è un dato naturale preesistente all’atto, ma un prodotto convenzionale di norme regolative.

Per approfondire ulteriormente questi argomenti è necessario fare riferimento agli studi di Judith Butler e in particolar modo a quelli relativi a Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, pubblicato nel 1990 e rielaborato in una seconda versione risalente al 1999. Secondo lo studio di Butler, così come è stato già anticipato, l’identità sessuale non è la manifestazione di un’essenza intrinseca, ma piuttosto il prodotto diretto degli atti e del comportamento che l’individuo intende produrre, cioè nell’insieme, una scelta performativa. Butler avvia il suo ragionamento a partire dall’individuo, inteso come soggetto in relazione al sesso, al genere e al desiderio. La critica che inizialmente viene mossa contro il processo storico del femminismo mette in dubbio la stessa esistenza di un’identità che necessitasse una rappresentazione considerata mancante. Butler rifiuta il concetto stesso di identità politica intesa in tali termini a favore di un totale ripensamento dei concetti stessi di identità e genere.

La tendenza di studi che può essere definita Queer theory deve molto alle intuizioni di Butler e alla rivoluzione di prospettiva relativa al discorso identitario, così come quello sessuale e relativo al concetto stesso di desiderio, innestati anche a partire dai suoi studi.

Butler mette in discussione la tradizionale distinzione tra sesso e genere secondo cui il sesso sarebbe da intendersi come dato biologico, mentre il genere rappresenterebbe l’esito di un processo culturale che coinvolge l’individuo. I corpi sessualizzati, sostiene l’autrice, non hanno significato al di fuori del genere perché sesso e genere non sono dati preesistenti, ma entrambi prodotti culturali.

Nella seconda parte dell’opera l’autrice si concentra sulla produzione della matrice eterosessuale. Butler riparte da Jacques Lacan, delle cui teorie è fortemente debitrice e a cui riconosce il merito di aver messo in discussione l’esistenza di una presenza piena e di una verità originaria, tradizionalmente sostenuta dall’ontologia della metafisica occidentale. La posizione anti-ontologica di Lacan ha attinenza, in generale, ai concetti di verità, dell’essere e del significato, muovendo dall’ambito linguistico di De Saussurre, secondo cui il significato andava formandosi attraverso la relazione tra significante e significato e non rappresentava mai un elemento pieno; ma riguarda anche il genere e il sesso intesi come dati veri e naturali.

La tendenza a rinnovarsi idealmente, arrivando a contestare paradigmi conoscitivi che la società occidentale aveva introiettato da decenni, si applica alle istanze più moderne della società, come sesso e identità, e si concretizza in un’istanza di cambiamento radicale di prospettiva. Infatti, come già anticipato, Butler si incarica di dimostrare come entrambe queste nozioni non siano fisiche e naturali, ma storiche e culturali. L’autrice dunque si interroga sulle operazioni significanti attraverso le quali un genere si impone come tale e propone quindi la teoria della reiterazione degli atti, cioè delle performances. Pertanto, attraverso Lacan, Butler sposta il discorso sul sesso dall’ambito fisiologico a quello simbolico. Da Lacan si passa a Michel Foucault per quel che concerne la terza e ultima parte dell’opera riguardante gli atti sovversivi dei corpi. Butler prende in considerazione specificatamente due opere di Foucault: Sorvegliare e punire (1975) e La storia della sessualità (1976 – 1984, con un volume postumo edito nel 2018). In questo caso l’obiettivo è di dimostrare l’inconsistenza della dimensione interiore della verità. In Sorvegliare e punire, Foucault approfondisce la teoria dell’interiorizzazione traendo come esito l’idea che il linguaggio dell’interiorizzazione stessa operi al servizio del regime disciplinare per assoggettare e soggettivare gli individui.  La nozione di una verità appartenente alla dimensione interiore dell’essenza, contrapposta all’esteriorità alla quale andrebbe a corrispondere la sfera ideologica dell’apparenza, rappresenterebbe il risultato delle opposizioni binarie di cui è pregna la metafisica occidentale.

L’interiorità non è una dimensione costitutiva della verità perché la dimensione del vero si iscrive nell’esteriorità, e in special modo sulla superficie dei corpi. Per quel che concerne la sessualità invece, Foucault aveva tentato di smentire in parte la teoria psicanalitica che prevedeva una verità del sesso appartenente alla dimensione interiore, così come aveva ipotizzato che l’anima riguardasse la dimensione superficiale della corporalità. Il corpo stesso si concretizza perciò come mancanza significante che deriva direttamente dalle leggi proibitive.

Il genere, dichiarato come prodotto della natura, è in realtà la manifestazione di un numero circoscritto di possibilità, quelle che Butler definisce «griglie intellegibili di un’eterosessualità idealizzata e obbligatoria», derivanti da una serie di proibizioni storiche e culturali e non esaurisce pertanto le alternative che pure potrebbero esistere. In questo modo, le azioni deliberate possono emancipare gli individui dal vincolo della normativa eterosessuale che impone il genere come istanza dal carattere binario. La dimensione ritualizzata della ripetizione consente l’ottenimento di una legittimazione condivisa che consiste in un riconoscimento sociale delle scelte individuali all’interno della comunità. Tale è il percorso intrapreso storicamente dalla normativa eterosessuale, che ha consentito di intenderla in quanto vera e naturale e non come prodotto di un numero limitato di possibilità culturalmente disponibili.

Quindi, attraverso una serie di mancanze significanti, sulla superficie del corpo, gli atti, i gesti e il principio di desiderio creano un effetto di interiorizzazione. Tali atti non sono da intendersi come espressivi, infatti «sono performativi nel senso che l’essenza o l’identità che altrimenti pretendono di esprimere sono invenzioni fabbricate e sostenute tramite segni corporei e altri mezzi discorsivi».

Dunque, se il corpo di genere è da considerarsi come performativo, esso non possiede uno status ontologico proprio e sussiste a partire dai vari atti fondativi che lo rendono reale. Se la verità interiorizzata dal genere è quindi una creazione a posteriori, non possono esistere generi veri o falsi, e tale invenzione sussiste per regolamentare la sessualità entro i limiti dell’eterosessualità riproduttiva.

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