“Il mio mare interno”
Trainspotting e la Scozia nichilista di Irvine Welsh
Ne “L’uomo a una dimensione” Marcuse scrive che : quando si guardano allo specchio, vedono riflesse le loro cose. Il dramma profondo dell’essere umano sta quindi nel non riuscir più a distinguere ciò che si è da ciò che si possiede. Come mi riapproprio di me stesso in una società nella quale le mie scelte seguono un’obbligata direzione?
Scelgo di non scegliere.
Edimburgo, 1980. Leith è una corea della capitale scozzese, ovvero un quartiere popolare, misero e sovraffollato. Situato alla foce del Water of Leith, è il porto di Edimburgo. Contemporaneamente al fenomeno hooligan e alla decadenza del movimento punk, dilaga in tutte le grandi città, ed in particolare nel Regno Unito, un fiume multicolore di droghe: erba, hashish, acidi, ecstasy, oppio, cocaina, eroina, anfetamina, speedball. Un fiume che straripando inonda case di famiglie provenienti da ogni classe sociale, si insinua tra le crepe dei muri, ne marcisce le fondamenta. Irvine Welsh, nato in quella stessa Leith nel ’58 da una cameriera ed un commerciante di tappeti, abbandona presto la scuola e cresce nella periferia nord di Edimburgo passando per vari lavori, fino alla scoperta della rivoluzione punk. Welsh cammina e vive per quelle strade traboccanti di gente, droghe e violenza; guardandosi intorno – nel bel mezzo del caos – coglie eternamente e strappa al corso del tempo e al disgregarsi rapido della memoria degli attimi, dei momenti: delle storie. Risse, atti vandalici, polveri sciolte sulla carta stagnola o in una goccia di bile dentro ad un cucchiaio arrugginito, buchi sulle braccia, tremori, occhi scavati; poi ancora discoteche, luci stroboscopiche, pasticche, pupille dilatate; ma anche impiegati alcolizzati e vecchi alcolizzati, valium per casalinghe disperate con figli difficili, pub stracolmi, prostituzione, depravazione, omofobia; e malattie infettive, overdose, AIDS, morti. Porta come un fardello sulle sue spalle la lotta disperata di un decennio alla noia esistenziale – una monotonia tanto concreta e cruda quanto metafisica e sublimata. È lirismo metropolitano, il canto selvaggio di una città allo sbando.Un canto che conduce in un universo collassante su se stesso, chiuso all’interno della sua logica. Welsh ne riempie pagine e pagine collegando miriadi di storie e dando alla generazione dei rave e dello spleen, dell’animalità e dell’astrazione, un qualcosa che la rappresentasse: Trainspotting.
Un romanzo che nasce per caso, ammucchiando piccoli racconti scritti prima di tutto per se stesso. Un vero e proprio protagonista non c’è: le voci dei personaggi si alternano capitolo dopo capitolo senza delineare una trama precisa; ma possiamo individuare in Mark Renton il collante che tiene insieme i fili delle varie narrazioni e li conduce – attraverso un percorso degradante tanto nel fisico quanto nell’anima – ad una conclusione: è una sorta di Riccetto edimburghese, un perno attorno al quale far girare un universo statico, mostrarlo al pubblico come una giostra.
La città è una sinfonia infernale atavica, figlia della Storia; ricorda la viola stridente di John Cale mentre Lou Reed cantava: “Perché quando la roba comincia a scorrere, allora non mi importa proprio più di nulla; quando l’eroina è nel mio sangue, e quel sangue nella mia testa, amico, ringrazio Dio perché sto bene come un morto”. L’eroina è una femme fatale: seduce la speranza degli uomini e placidamente li riduce ad una tomba di disperazione. Ma cos’ha di seducente tutto questo? La risposta la dà Mark stesso al suo amico Tommy nel capitolo “Problemi di uccello”: “Ti fa sembrare più vere le cose. La vita è una rottura di palle, non ti dà mai un cazzo. […] Ce la riempiamo di merda, la vita: la carriera, i rapporti e roba del genere, per illuderci che magari non è tutto inutile. L’eroina è una droga onesta, perché toglie di mezzo le illusioni”. È nichilismo allo stato brado, animalesco, violento, autodistruttivo. La Nausea che prova Sartre dinanzi alla gratuità delle cose diventa qui insopportabile: il conato ti brucia dentro, è atroce, vorresti strapparti l’esofago – qualsiasi cosa, purché abbia fine. È l’ardore del desiderio di legarsi a qualcosa o qualcuno, e la frustrazione dell’incapacità di riuscirci; non resta che lasciarsi legare: “con la droga è diverso, però. Uno non può girarsi e andarsene” . Sembra di rivivere il dramma implicito nelle parole di Vincent van Gogh quando scriveva al fratello Theo che c’è fannullone e fannullone: il fannullone per pigrizia e mollezza di carattere, e il fannullone costretto ad essere tale – tanto ardente di vita quanto impossibilitato a vivere, e perciò costretto a bruciare. Tutte le anime del romanzo si affannano tra i loro deliri chiedendosi cosa sia che li imprigioni, in bilico tra realtà e fantasia. E sotto a tutto il dolore collettivo e intimo, sotto ai grammi, al sangue, alle siringhe, alle lacrime, sotto alle urla e alle morti – forse sotto a tutto questo c’è la stessa soluzione che suggerisce il pittore olandese, nonostante sia i protagonisti sia il mondo loro circostante facciano di tutto per cancellarla: È un affetto profondo, serio. Essere amici, essere fratelli, amare spalanca la prigione per potere sovrano, per grazia potente. Un amore sincero, che riorganizzi tutto secondo il suo senso, e scavi una via dentro al cuore. Ma intanto…
Una botta soltanto, cazzo, per arrivare alla fine di questa giornata tanto lunga, e tanto dura
Articolo di Federico Stinellis