Culturificio
pubblicato 4 anni fa in Interviste

“Tutto mescolato”. Intervista a Valentina Maini

“Tutto mescolato”. Intervista a Valentina Maini

Nel suo romanzo d’esordio, un importante scrittore francese scomparso quattro anni fa metteva in bocca al suo protagonista l’affermazione che tutti «andiamo in cerca di noi stessi a tentoni in una foresta di simboli». Quando lo scriveva era il 1967, ma è una di quelle frasi-faro in cui la luce arriva a chilometri di distanza, rivelando e collegando oggetti lontani.

A me sembra che illumini alla perfezione uno dei migliori esordi di quest’anno, La mischia di Valentina Maini, pubblicato a febbraio da Bollati Boringhieri; anche se nessuno dei suoi protagonisti si azzarderebbe mai a pronunciarla.

La mischia è un romanzo incandescente, una materia viva che scappa dalle riduzioni come i personaggi che lo affollano. È la storia di Gorane e Jokin, gemelli baschi nati in seno a una famiglia di terroristi e a una realtà violenta che esiste fuori e dentro di loro. La morte dei genitori, la separazione dei gemelli dopo la fuga di Jokin, la caccia della sorella per ritrovarlo sono alcuni dei paletti che la trama impone alla scrittura: intensa, nevrotica, viscerale, evocativa, inquieta, materica, pirotecnica, per La mischia sono state usate tutte queste definizioni e ancora sembra difficile mettere in gara un solo aggettivo con un romanzo che ha la densità e il dinamismo di un’esperienza reale e scorre impetuoso con l’energia trascinante di un fiume. Dai gemelli ai malviventi parigini, dai cieli di Bilbao alle strade di Parigi, tutto si rompe e si rifrange, assume più forme e apre nuove strade, ognuna con la sua vitalità e verità. La lingua di Maini è precisa e suggestiva, plurale, disegna immagini potenti all’interno di un universo narrativo in cui sono stati finora evocati i numi di Bolaño, di Kristóv, Énard, Beckett e Cortázar ma di cui allo stesso tempo si riconosce la natura unica e originale. Un impasto che è stato definito «caotico» e di cui si sente la seduzione, dal momento che nel materializzare presenze, visioni e idee in forma narrativa lo stile è sorretto da mestiere e, soprattutto, da grande e percepibile onestà.

In questo momento La mischia è finalista al Premio Opera Prima e al Premio Severino Cesari, e sono stata felice di aver raggiunto Valentina Maini per parlare di Gorane e Jokin come fossero dei conoscenti comuni e dell’accumulo di sensazioni che si sono sedimentate dopo la lettura.


Maria D’Ugo: Mi è capitato di leggere in alcune tue interviste che pensi che l’inizio del tuo romanzo sia difficile. Che l’ingresso non inviti a entrare. La cosa mi ha molto stupita, perché La mischia inizia in modo molto immersivo, ricorda un incipit à la Beckett, in cui c’è un dialogo in atto e siamo già dentro, il testo è preso in corsa, la storia è iniziata prima dell’inizio del libro e quindi, in un certo senso, sta al lettore acchiapparla.

Dicono che non hanno più bisogno di medicine, continuano a ripetere che sono guariti. La guardano come se avessero sete, ma appena Gorane porge loro un bicchiere d’acqua, scuotono la testa e dicono: portaci a casa.

Si può trarre anche piacere nel sentirsi indietro rispetto alla storia. L’invito, o forse meglio la sfida a proseguire c’è. E poi mi è sembrato che in queste prime righe ci siano le chiavi per entrare. Qui si sentono le voci che provengono dall’esterno, si vede una forma di malattia, si sentono la dipendenza, il bisogno, un conflitto velato, la ricerca di qualcosa da chiamare “casa”. Che mi paiono poi i tuoi temi, lo scheletro della struttura.

Quando hai iniziato a pensare al libro ti era già chiaro che era di questo di cui volevi parlare?

Quando è nata l’idea del libro?

Valentina Maini: Sono d’accordo con te su tutto – il carattere immersivo, l’entrata in corsa, la bellezza del sentirsi indietro, la sfida al lettore – e sono questi gli argomenti che ho usato per difenderlo insieme a qualche alleato. Ma ne riconosco il carattere poco accomodante, per quanto io abbia deciso di preservarlo. Non credo di aver chiaro nemmeno ora quello di cui volevo parlare. O meglio: avevo un dolore, non avevo la diagnosi, ho provato a farmela da sola, scrivendo. Per farlo ho cercato ovunque, scovando punti di origine di quella sofferenza dove non pensavo avrei potuto trovarli, affrontandolo in maniera sistemica, senza focalizzarmi solo sul punto dolente, ma accerchiandolo, scoprendone tutte le possibili ramificazioni. In questo è davvero un romanzo mondo: cerca ragioni, sorgenti, innesti della malattia dappertutto. Ho tentato questo approccio per guarire, un po’ come la medicina cinese che per far passare un’emicrania ti pianta un ago nel piede, e questo me l’ha permesso la scrittura, l’incontro con quell’alterità che è la famiglia Moraza. L’idea del libro è nata così, come una presa di coraggio, la decisione di dover manipolare quella sofferenza, di averci a che fare sul serio. Loro, i gemelli, erano già nati da un pezzo, emersi come due sintomi, immersi in questo magma che intuivo essere grumoso e vitale e che si è svelato ai miei occhi man mano che andavo avanti, senza che io lo avessi pianificato più di tanto. Lo avevo solo perimetrato, anche se poi c’è una fuoriuscita costante dal perimetro e il romanzo perde acqua, rischia di affondare, come se la materia di cui è composto mi sussurrasse: non è finita qui.

M.D. La trovo bellissima questa immagine del buco nella barca. Azzeccatissima rispetto al mondo che circonda i gemelli, le situazioni che attraversano e che li attraversano.

Qualche tempo fa (11 luglio 2020) era uscito su «La Stampa» un articolo sulla attuale situazione politica nei Paesi Baschi che mi aveva molto colpito per la scelta di alcune parole: dallo scioglimento dell’Eta, due anni fa, per la prima volta il paese è andato a votare senza «l’incubo» del terrorismo, ma – era il commento del giornalista – «i fantasmi dei lunghi anni di piombo spagnoli sono ancora presenti» e «sono in molti a considerarsi vittime, non solo quelli perseguitati in tutti i modi dall’Eta, ma anche i cittadini che hanno subito le azioni dei gruppi paramilitari e della cosiddetta “repressione dello stato”».

Pensando al tuo romanzo le parole “fantasmi” e “vittime” si erano illuminate. Ho ripensato in particolare al capitolo che chiude la prima parte, che è stata una parte del romanzo che ho amato molto, in cui i Moraza parlano in prima persona plurale.

Abbiamo cercato di abituare le loro anime a continue separazioni a cambiamenti repentini e violenti di modo che fossero preparati nella vita. Preparati a perdere prima di tutto noi. Preparati a perdersi. […] Non abbiamo dato altro che terre franate e sottrazioni ai nostri figli e terre franate e sottrazioni hanno continuato a cercare per tutta la loro vita lontano da noi. È stata colpa nostra del fragile terreno. Pensavamo le idee sono importanti quelle non cambiano le porti ovunque sono una casa. Avremmo dovuto pensare è importante il pane la domenica al parco qualche divieto ogni tanto regole da sgarrare.

L’insegnamento della libertà e dell’idea di indipendenza per i genitori di Jokin e Gorane passano attraverso piccole iniezioni quotidiane di violenza, che poi i gemelli sedimentano e mettono in circolo a modo loro (Gorane con il disegno e l’ossessione della pulizia, Jokin con la musica e la dipendenza da eroina, ed entrambi con un certo tipo di irrequietezza molto fredda, quasi anodina).

È stato curioso trovare in un articolo di cronaca delle parole che risuonano così forti nel tuo romanzo. Mi sono chiesta se avessi fatto delle ricerche sul tema del terrorismo e in particolare sul terrorismo basco, e in che relazione è questo tema, la cornice se vuoi, rispetto ai personaggi. Se li ha preceduti, o se sono stati loro a suggerirti un contesto di violenza estesa, insomma.

V.M. Un giornalista mesi fa scrisse un pezzo su La mischia con un lapsus fenomenale: «fanatismi» invece che «fantasmi». Per anni ho approfondito il terrorismo basco e il quadro storico in cui si è sviluppato, ma credo che ogni storia di violenza, familiare o collettiva, sia in fondo una storia di fantasmi. Per questo, anche se non credo che il mio si possa definire romanzo storico, ne La mischia il terrorismo non è una cornice, ma è il corrispettivo esteriore di ciò che è successo dentro, nella psiche, nei comportamenti. La corrente attraversa entrambe le dimensioni, difficile capire dov’è nata. Per questo non riesco a darti un ordine di entrata in scena: Jokin, il primo a presentarsi a me, è nato terrorista, eroinomane e fuggiasco, ed è stato subito così, tutto insieme, senza che un aspetto della sua personalità potesse essere scisso dagli altri né precederli. Lo stesso è accaduto per Gorane, per tutti. Il fatto di essere cresciuti nella violenza, di esserne stati esposti per generazioni (ci sono riferimenti vaghi alla generazione dei nonni, un nonno misteriosamente morto, in guerra civile, forse?), di averla immagazzinata e in qualche modo assunta come strumento di conoscenza del mondo è il fantasma che percorre la storia dei Moraza e del loro paese, e ha anche un corrispettivo metaletterario, credo: la scrittura, per me, è più vicina alla trasmissione di una malattia che a un’espressione creativa; materializzare un fantasma che prima vedevo solo io, e far sì che tremino tutti insieme a me.

M.D. Mi sembra che tutti i personaggi portino con sé una traccia della sottrazione di cui parlano i Moraza, non solo Jokin e Gorane. Tutti mancano di qualcosa. Per quello che riguarda i gemelli, non so se hai voluto nascondere sottotraccia un discorso più ampio – generazionale, forse? Anche se la parola mi suona sempre un po’ retorica –, però mi interessa sapere se per te le loro abilità, le loro caratteristiche e fissazioni avessero un significato particolare. Soprattutto perché poi, a partire da loro, sembrano tutti reduplicarsi, trovare un loro corrispettivo altrove. Addirittura, Gorane e Germana hanno lo stesso modo di staccare le sillabe. O nei passaggi in cui Jokin è con Germana e vede sé stesso, un più di sé stesso. Tutto sembra avere almeno due facce, come se si sdoppiasse tutto, compresa la realtà romanzesca, che poi si rifrange nel romanzo di Dominique Luque. Mi sembra che possa valere anche per lo spazio: in qualche modo Bilbao o Parigi per i gemelli potrebbe essere la stessa cosa.

V.M. Forse la vita di tutti è fatta di doppioni e sostituzioni continue, come dice Germana a suo padre; proviamo a rintracciare negli altri l’immagine di un originale, proiettando su di loro i suoi tratti, manipolandoli anche a volte per renderli più simili a quel primo amore che a volte non riusciamo nemmeno a individuare con precisione. La duplicazione ha anche molto a che fare con le generazioni di cui parlavamo prima, perché capita di soffrire per traumi che abbiamo attraversato solo di sghimbescio, violenze che hanno colpito i nostri padri e così noi, che siamo anche l’esito, il doppione, della loro esperienza. E così conteniamo storie che nessuno sembra averci mai raccontato.

Il discorso generazionale, se c’è, non è voluto – mi è parso, mentre scrivevo, di lanciare una richiesta d’aiuto più che di proporre una visione del mondo, e che quindi non ci fosse nessuna intenzionalità, nessuna orchestrazione precisa, ma solo un bisogno di condivisione, la richiesta di sopportare tutto insieme a me –, ma più passa il tempo più mi sembra venire alla luce, soprattutto in merito alla questione dell’imperativo libertario. Gorane definisce la libertà una parola “sporca, insanguinata”, contaminata e forse fraintesa. Durante la pandemia si è reso ancora più evidente come il “vietato vietare” del ’68 sia stato fagocitato dalla società dei consumi che ha trasformato la rivendicazione politica di una collettività schierata contro le vecchie repressioni – casa, chiesa, matrimonio – in un cieco e spietato inseguimento dei propri desideri, a scapito degli altri, contro di loro, se necessario. Rispetto alle generazioni precedenti, la nostra vive una specie di ossessione per la libertà, libertà a tutti i costi, esplorazione quasi nevrotica di tutte le possibilità esistenti: percorsi che ai nostri genitori, per esempio, erano preclusi, quanto meno non vissuti a livello collettivo, e rappresentavano forse brevi fughe da recinti al tempo ancora ben saldi e che loro hanno contribuito a sfasciare. Questa era la loro lotta. Mentre forse noi stiamo per primi sperimentando i pericoli di una libertà che non ci libera, se non abbiamo una struttura forte a cui aggrapparci; un nomadismo sostanziale che ci schiavizza, proprio perché privato del suo corrispettivo, la possibilità di radicarsi, prima o poi, da qualche parte, in un paese, in un’identità. Ne ha parlato Gianluca Didino nel suo Essere senza casa, un libro che sembra abbracciare tutto, e dove l’autore scrive della moda quello che si potrebbe scrivere, in generale, del contemporaneo dominato da un «eclettismo senza frontiere refrattario all’idea di un’identità stabile». Proprio questa è la parabola dei gemelli che rifiutano una prigione identitaria e allo stesso tempo si ingabbiano nella dipendenza, come accecati da un bisogno di limiti che nessuno sembra dargli e che loro costruiscono in maniera patologica; come se la malattia, al contrario degli altri, venisse in loro aiuto: e così si chiudono nell’identità della “pazza”, del “drogato”, così si danno un nome.

M.D. Altre cose che ricorrono e si reduplicano sono i simboli, che nel romanzo sono moltissimi, e molto evocativi: l’uovo, l’acquario, il fuoco, l’acqua. Ogni personaggio sembra trovare gli stessi “oggetti”, in forme diverse. Però mi è difficile farti una domanda precisa su questo, sciogliere un simbolo è una faccenda oltremodo violenta e privata.

V.M. Manca la terra, sempre a proposito del mancato radicamento! Sì, questo è stato uno dei pochi elementi premeditati, che avevo già inserito in un testo mai pubblicato e che mi è tornato in mente quando ho iniziato a scrivere La mischia. Ci sono oggetti che compaiono nelle mani di persone a chilometri di distanza, come se se li fossero passati o regalati per via telepatica. Simili ad amuleti o a manifestazioni di presenza che i personaggi non colgono, sono privilegi esclusivi del lettore che sa più di loro, vorrebbe avvertirli: guarda che questa è tua sorella, ascoltala. Succede anche con alcune frasi, con alcuni gesti (Jokin dà la colpa al coinquilino Sef, ma chi è che gli sottrae i soldi?) e mi permetteva di innescare un effetto entanglement nel loro universo, restituire questa idea di comunicazione a distanza. In realtà non credo se ne siano accorti in molti, a te piace?

M.D. Moltissimo. Entanglement è il concetto giusto, anzi, forse riassume tutto il romanzo. Trovare corrispondenze disseminate discretamente è sempre un’esperienza felice nella lettura, e sono d’accordo con te sul fatto che sia un privilegio tutto nostro: quasi finiamo per essere in anticipo. Mi viene in mente che così si controbilancia anche il senso di “ritardo” dell’inizio, no? E poi più ci si avvicina alla fine, più ho avuto l’impressione che gli “appuntamenti” con gli oggetti e le immagini valessero come presagi. Poi chissà, non sono sicura che soprattutto al finale si possa dare una lettura univoca (oltre al fatto che non è bene dirne troppo, probabilmente ci uscirebbero altre quattro interviste), però vorrei chiederti se anche quello è stato premeditato. (In realtà immagino la risposta, ma vale la pena chiedertelo ugualmente.)

V.M. No! Mi è “arrivato” quando avevo già iniziato la seconda parte e ci sono rimasta malissimo.

M.D. Il legame fra Gorane e Jokin è da manuale nella letteratura sui gemelli. Penso a un saggio di fine anni Ottanta, Il paradosso dei gemelli di René Zazzo, in cui si parla dei gemelli come «coppia non eccezionale, ma eccessiva». I gemelli sono l’esempio di estremo limite per qualsiasi coppia. In quel periodo Zazzo aveva condotto un’indagine insieme allo scrittore Michel Tournier (autore di un altro grande romanzo gemellare, Le meteore, lo conosci?) e aveva intervistato vari gemelli eterozigoti maschi e femmine per osservare gli effetti di questa coppia eccessiva nella costruzione delle loro identità, ovvero in che modo, e se, avvenisse una differenziazione (posti determinati parametri come condizione sociale, rapporto con i genitori ecc.). Fatte salve alcune specificità ne era uscito un quadro pressoché fisso, con un gemello “ministro degli interni”, riservato, introverso, più attento alle dinamiche interiori, e un gemello “ministro degli esterni”, migliore nel muoversi nell’ambiente sociale di riferimento. A uno dei due, in ogni caso, la rottura del nucleo binario e la fuga.

E qui penso a uno dei racconti che i Moraza fanno nel libro, quando descrivono un disegno fatto da Gorane: aveva rappresentato una casa, disegnato «i mattoni con una precisione eccessiva» e Jokin in fuga in un lato, di lui si vedono solo le gambe, dicono.

V.M. È così. Nella loro dinamica questo è lampante e serve anche come pretesto – penso a volte che se la raccontino, che sia una scusa, che mi abbiano ingannato – per la necessità dell’altro: come se Gorane affidasse al gemello il suo istinto sociale – che senza di lui le è negato – e allo stesso tempo servisse a lui come custode e protettrice dell’intimità, conferendogli spessore. Uno psicologo direbbe forse che la rincorsa dell’uno verso l’altro, il fatto che non si incontrano ma allo stesso tempo si cercano, potrebbe mimare una specie di processo di individuazione che avviene, e fallisce, in due corpi separati e non nella stessa persona. Quello che penso io, comunque, è che abbiano completamente toppato nell’attribuzione dei ruoli: dal mio punto di vista è Gorane a cavarsela meglio con l’esterno, una volta che si sblocca sembra anche divertirsi e riesce a entrare in ambienti diversificati facendosi pure voler bene – persino i delinquenti si affezionano a lei – mentre è lui il vero orso che si sforza di buttarsi nella mischia, di essere sociale, di prendere parola, andando contro la sua natura. No?

M.D. È vero. Quella distinzione vale finché sono dentro il nucleo-casa di Bilbao, fuori invece il ruolo è opposto. In ogni caso mi ha colpito molto che nel romanzo non li vediamo mai, o quasi mai, insieme. Addirittura, Jokin quasi non parla della sorella. Mi sembra che questa sia l’unica specularità che manca: la sorella insegue il fratello, ma lui chi insegue? Forse anche Jokin insegue sé stesso.

V.M. Beh, Jokin non lo direbbe mai esplicitamente! Anzi lo dice, solo una volta, e quando lo fa credo sia abbastanza straziante. Però la donna di cui si innamora è come ricalcata su Gorane, tanto che a un certo punto lui si sbaglia e la chiama così. Jokin, così come Germana, è uno che tenta con tutte le sue forze di stare nel personaggio, è un po’ poser, è bloccato. È talmente fragile che deve essere coerente. Le poche volte che questa maschera si incrina e lo vediamo, lì sembra di toccare una cosa viva: prima no, prima è uno stereotipo, un personaggio da romanzetto mediocre (non è un caso che Luque scelga come protagonisti lui e la figlia e cassi invece Gorane: lei è troppo difficile da afferrare). Gorane è il contrario, appena sente che una definizione potrebbe calzarle a pennello fa di tutto per contraddirla, si sposta, va da un’altra parte. Hai mai letto Alice disambientata? Quello è uno dei miei libri preferiti, e credo che Gorane assomigli a quella Alice, è una figura di movimento, forse di innamoramento, è “sempre da un’altra parte” anche rispetto a sé stessa, alla definizione che può darsi per trovare un po’ di pace, approdare a una casa definitiva. Jokin, secondo me, non insegue nessuno, e questa mancanza di movimento, che lui sopperisce con la fuga fisica, è il suo dramma (uno dei). Lo dice anche la maga a un certo punto: “vedo immobilità, immobilità che si spaccia per movimento frenetico, il movimento del carro, e che invece nasconde la propria essenza larvale”. Fugge ma non insegue nessuno, è come se desiderasse farsi inseguire, come se la sua sopravvivenza dipendesse dal desiderio che gli altri hanno di lui. Un desiderato senza desiderio. A questo punto gli psicologi potrebbero scatenarsi con le definizioni più azzardate.

M.D. Mi sembra si parli troppo poco dei numerosi personaggi secondari, che sono uno spasso: penso a Madame Le Coupe, o all’amico di Potifar (i dialoghi tra lui e Gorane sono davvero divertenti), o alla deposizione della ragazza che ha un flirt con Jokin; ognuno ha la sua voce, bella e riconoscibile, e se è vero che tutto è utile e niente serve, ognuno è assolutamente necessario: danno la sensazione che fino a quel momento ci si sia persi una parte della storia, ovvero tutto ciò che riguarda il mondo esterno attorno ai gemelli. E poi c’è il dottor Jespersen, figura stramba e a suo modo emblematica: il modo che ha di prendersi cura prima di Gorane e poi di Jokin mi sembra una tecnica di avvitamento su sé stesso, alimenta la ricerca del terapeuta ma non ha effetti, apparentemente, sui gemelli, che rimangono oggetti misteriosi per lui. Il suo ruolo nel romanzo in questo senso è bizzarro.

V.M. Sono molto contenta che tu l’abbia percepito come “necessario” perché anche per me è stato così, ma ad una prima occhiata può sembrare che io abbia voluto allungare il brodo. Assolutamente falso, perché per me scrivere tanto, scrivere libri lunghi, è una sconfitta e non un traguardo. Era necessario per dare l’impressione di cui parli tu, e anche perché la vita dei gemelli, anche se non sembra, è estremamente influenzata dallo sguardo degli altri che manipola la loro storia, li esalta, li ferisce: questa mischia umana ha plasmato le loro esistenze, moltiplicandole, mitizzandole, costruendo per loro immagini alternative in cui a volte scelgono di calarsi, cambiando forma. Sono stati guardati a lungo, sono stati guardati troppo. Per esempio, si dice che ci siano rapporti incestuosi tra i Moraza e Gorane confessa di aver provato a volte a calarsi nella parte, a comportarsi come la figlia abusata dal padre per vedere com’è, come ci si sente: è come se si esercitassero a osservarsi con occhi estranei, e forse per questo faticano tanto a vedersi davvero. Per quanto riguarda Jespersen credo che il suo ruolo sia quello di mediatore, punto di passaggio tra i due gemelli che, in un certo senso, lo usano per parlarsi. Lui non se ne rende conto subito, se ne accorge alla fine, o forse mai. La trasformazione a cui va incontro per colpa o grazie a Gorane lo rende un personaggio molto vulnerabile: è come se i gemelli si portassero addosso questo morbo infetto, la vulnerabilità; ogni volta che entrano in contatto con qualcuno, la sua vita precipita, innescano un cambiamento, le difese vanno in fumo. Dei Re Mida dell’autodistruzione. Contagiosissimi. Se ci pensi Jespersen è un punto di passaggio che serve a Gorane per agire su Jokin: lei innesca il cambiamento nello psichiatra, e grazie o per colpa di questo cambiamento, lui si comporterà in un certo modo con Jokin. Grazie o per colpa di quel cambiamento si incontreranno. Per fortuna Gorane non lo saprà mai, sarebbe insopportabile per lei.

M.D. Forse questa domanda avrei dovuto fartela prima, perché in qualche modo riguarda di nuovo i simboli e le reduplicazioni. Però mi è venuta in mente pensando ai personaggi secondari (e poi è più un’impressione). Parto dal presupposto che mi sembra che La mischia sia un romanzo pieno di superfici. Penso intanto a uno dei temi che prende più spazio, l’ossessione di Gorane per la pulizia, per la levigatezza, per le forme, che se vuoi si sviluppa nella precisione che le viene richiesta dall’amico di Potifar per tagliare le valige. Questo mi ha fatto pensare che è un modo per creare una superficie che nasconde qualcos’altro. Da lì ho pensato alle scritture seconde che ci sono nel romanzo, le varie forme che prendono la parola e la scrittura: le false lettere che Gorane scrive a Jokin, le trascrizioni dei verbali della polizia e delle sedute di Jokin con Jespersen, fino al meta-romanzo del libro di Dominique Luque, un altro modo per contenere rapporti complessi, caotici. In comune hanno l’essere forme di superficie, che nascondono qualcosa sotto. Paradossalmente la scrittura seconda a cui si crede di più, da lettori, è quella dell’editore di Luque. E lì viene da chiedersi se ti sia divertita a prendere un po’ in giro le convenzioni di verità della scrittura, a creare piccole menzogne che, da lettori, un po’ ci mettono in crisi nel momento in cui siamo completamente dentro alla trama a cercare di dare un senso e un ordine agli avvenimenti. (Grazie al cielo poi che la prosa è sempre dialettica, il romanzo discute con sé stesso a ogni riga ed è come la tigre di Borges: una tigre fatta di tante piccole tigri. A proposito, c’è una citazione diretta di questo quando descrivi i muri del locale dove suona Jokin, il White Elephant? “Un elefante fatto di molti elefanti”, mi sembra di ricordare.)

V.M. Sono ammirata. Non è una citazione diretta, ma può darsi che sia involontaria, nella fase di editing avevo il terrore di aver plagiato qualcuno senza accorgermene e in un certo senso l’ho fatto. Hai ragione nel dire che questo è un romanzo di superfici e svelamenti, sembra sempre che ciò che esiste sia una maschera di qualcos’altro, ciò che si dice una falsificazione di un discorso impronunciabile. Quello che vediamo è un indizio. Il movimento di costruzione e distruzione che metto in piedi non è tanto una presa in giro voluta, ma la conseguenza di un rapporto complicato con la realtà; come quando Gorane dichiara di voler mettere radici, di non voler più, passami il termine, volare (i suoi piedi hanno una struttura alare): lo afferma con una certa veemenza, ma poi non fa altro che saltellare di qua e di là, trasformarsi, vagabondare. Le superfici di cui parli sono un po’ come le identità: bramate e canzonate, punti di arrivo auspicabili che i personaggi desiderano fino a un minuto prima di tagliare il traguardo; appena stanno per arrivare, cambiano idea e scelgono altri percorsi. È abbastanza esasperante, come lo è la struttura di questo romanzo. C’è un’esigenza di contenimento, come ti dicevo prima, e questo contenimento lo si può fare solo creando un perimetro e una superficie che lo abbracci, ma questo stratagemma dura poco, la materia da contenere è troppo magmatica e straborda. Forse ha anche a che fare con l’istinto e la ragione, con una forza che cerca in ogni modo di razionalizzare una spinta animale. Io non parlerei di struttura, infatti, ma di un tentativo di struttura: regge fino a un certo punto, poi l’istinto fuoriesce e manda tutto in pezzi. Qualcosa che conosco bene! Alla fine mi pare che anche l’esistenza di Gorane sia messa in dubbio, mentre scrivevo la terza parte mi dicevo: Gorane non esiste, è la musa di Luque e basta, i genitori non sono terroristi e non c’è nessuna famiglia Moraza. Come dici tu, l’unica cosa certa è quella che era già falsa in partenza: un libro (e il suo scrittore cane).

M.D. Sempre parlando di scritture seconde, ma di altro genere: gli eserghi della prima parte del romanzo sono molto belli, molto puntuali rispetto al capitolo che introducono. Mi sono chiesta chi sia a parlare, se sia qualcuno dei personaggi. L’effetto ricorda quasi il coro greco nella tragedia classica.

V.M. A questo punto penso che la mia presenza in questa intervista sia superflua. Ti ascolto.

M.D. Ma no, è che ho un feticismo per gli eserghi e tendo a farmi dei viaggi il più delle volte superflui. Nella tragedia se il coro parla è per due ragioni: o sta dando un buon consiglio – l’unico che non verrà ascoltato – o sta esprimendo un sentir comune di tipo molto generale, è espressione della folla. Ecco, mi pareva che le citazioni dalla Genesi e da Cioran andassero nella prima direzione, i virgolettati invece («Da quel giorno, lei è impazzita») nella seconda. Tanto più che in quest’ultimo caso, e proprio perché appaiono solo nella prima parte, fanno sussultare: è Euskadi, è Bilbao che parla, mi sono detta.

V.M. Non avevo pensato potessero essere le città a parlare, in effetti. Gli eserghi sono come delle estreme sintesi della loro parabola umana, forse, di quello che avrei voluto dir loro, anche. I virgolettati sono, sì, espressioni della mischia umana che li circonda e fa di loro una famiglia trasparente, forse una famiglia da romanzo. Spero di non averli guardati così anche io.

M.D. Il tuo primo libro pubblicato è una raccolta poetica, Casa rotta. Credi che nel passaggio alla prosa si sia conservato qualcosa? Di aver conservato qualcosa di quella scrittura per farlo crescere qui? Mi sono anche chiesta se si sia salvato qualcosa dentro La mischia della tua personale esperienza a Parigi.

V.M. Non lo so proprio. Non riesco a vedere il mio percorso nella scrittura in un’ottica di crescita o miglioramento, come se col passare del tempo andassi avanti a costruirmi un bagaglio di esperienza, affinassi i miei strumenti e potessi così appoggiarmi a quello che ho scritto prima. Quindi a livello tecnico non so cosa si è conservato, forse nulla. Rintraccio molti temi simili e forse anche una certa energia che però non saprei come definire se non come qualcosa di molto aggressivo, qualcosa che ha più a che fare con gli ormoni che col pensiero. Non mi pare di aver ancora esplorato la calma, la pace, l’eleganza, l’abbandono, ma vorrei. È tutto ancora nervoso, nevrotico e, come ha detto una ragazza del premio POP, pirotecnico. Forse un tentativo di essere maschile, una specie di desiderio di virilità. Può essere? Adesso è tutto più prossimo al grido che al discorso, e al contenimento di questo grido in una struttura di pensiero ossessiva, mentale. Non ho percorso terre di mezzo, c’è un oscillare tra eccessi tra cui non riesco a mediare – come coi gemelli. Secondo me per questo è una lingua adolescenziale, mi stupisco sempre molto quando la descrivono matura: per me è proprio evidente che si tratta di un esordio, che è il primo amore, viscerale, eccessivo, tutto sbagliato. Nel libro, sì, c’è la mia Parigi, il posto che chiamo casa, dove ho capito cosa significa non avere nessuno, nemmeno una lingua, e dove ho provato a uscire da quella solitudine piano piano, con le mie forze, con le persone che mi hanno spinto, aggredito, e aiutato.

M.D. Nonostante il fatto che sia uscito durante il lockdown, mi sembra che finora il tuo sia stato un esordio molto fortunato, di cui si sta parlando molto, e che è stato anche candidato a dei premi. Che effetto ti fa questo, te l’aspettavi che avesse un buon riscontro? Forse non c’entra molto, ma mi sono anche chiesta se avessi in mente un interlocutore, scrivendo. Se ci fosse nella tua mente un tu a cui rivolgerti.

V.M. Non so dire cosa mi aspettavo, quello che temevo erano le recensioni tiepide o i complimenti sulla bella scrittura. Che ci fosse, insomma, un generale consenso senza entusiasmo, tipo il classico buon libro. Vedi come sono adolescenziale? Mi sono accorta che i lettori che lo hanno amato lo hanno vissuto come esperienza davvero intensa, sono entrati in rapporto con lui passando per vere e proprie fasi, anche di odio o fastidio, mentre chi non lo ha amato lo ha proprio abbandonato, il che mi sembra una reazione giusta che condivido e in un certo senso mi lusinga. Nessuno mi ha detto: “carino”, “piacevole”, “scorrevole”, “omogeneo”, spero che non accada mai. Nessuno è arrivato fino alla fine per senso del dovere. Quella dell’interlocutore è una questione spinosa. Penso sia una specie di lettore interno, ovvero la me stessa lettrice a cui non piace mai niente, severa e facilmente irritabile, burbera, felina, ma potrebbe essere anche un lui, stronzo, lunatico, dall’anima glaciale e piuttosto belloccio.

M.D. Un’ultima curiosità che ho è come guardi adesso al tuo romanzo. Cosa succede adesso che il romanzo esiste e cammina sulle sue gambe. Sia per quello che riguarda la promozione che per quello che riguarda il prossimo capitolo, la voglia, se c’è, di scrivere ancora. In un certo senso riguarda anche il “che cosa c’è da fare”. Mi chiedo se senti che ci sia una richiesta di fare di più, di emergere di più, visto e considerato com’è il nostro panorama editoriale, il mare delle ultime uscite.

V.M. Per quanto riguarda la promozione, essendo uscito in un momento così strano, mi sono sentita di dover mettere da parte il mio imbarazzo e seguirlo come una groupie. Sono diventata tipo la cheerleader de La mischia, la seguo quando se ne va in giro a giocare, faccio il tifo per lei, la presento al mondo con qualche strana acrobazia, provando a non arrossire. Ho attivato la modalità operaio, testa bassa, lavorare. Succede ogni tanto che la guardo con gli occhi degli altri, tento di capire cosa li ha toccati, perché proprio quella frase, me la rileggo come se non l’avessi scritta io. Di base, però, è da anni che la sto dimenticando. Il futuro è sempre buio e sto cercando di capire soprattutto come guadagnarmi uno stipendio normale in questo periodo di merda che ci tocca attraversare, e con tutti i cambi di rotta a cui ci ha costretti. Mi sono circondata delle persone giuste – persone che non mi chiedono niente, che mi aspettano e mi danno tutto il tempo – e non mi costringerò mai a scrivere solo per confermare a me stessa che è questo che so fare, né per una smania di esistenza (questa sì, mi tenta, al pari del suo opposto). Anzi, la mia paura più grande è proprio quella: sfornare libri non necessari per me, smettere di ascoltarmi. Più che voglia, ne avrei bisogno, perché quando non scrivo sono più inquieta del solito, giro a vuoto come un animaletto storpio, sono sempre incazzata o depressa, ansiosissima, divento una persona a cui non è bello stare vicino. Quindi spero per i miei amici e la mia famiglia che presto inizierò a scrivere, che sarà sempre esaltante e spaventoso e che non ci sia nessuno dall’altra parte ad aspettarmi