Un anno sull’Altipiano: la guerra, il cognac e il Natale
Nella memorialistica di guerra, segnatamente forse in quella che fiorì all’indomani del Primo conflitto mondiale, quando il mondo basso (per dirla con Dante) si manifestò con il volto e nelle forme di un’inedita ferocia, il tema del ricordo rappresenta una delle dimensioni letterarie privilegiate nella descrizione e nella rievocazione dei riflessi, – per lo più momenti collettivi ma anche frangenti individuali –, di una vicenda epocale.
In questa prospettiva si realizza la stesura di Un anno sull’Altipiano, sullo sfondo però di tetri rivolgimenti politici che implicano anche l’autore, Emilio Lussu, confinato a Lipari, esule poi in Francia. Qui, a Parigi, nel 1938 verrà impressa la prima edizione. Ma è nel biennio appena precedente, tra il 1935-37, trascorso nel sanatorio in Svizzera, a Clavadel, sopra Davos, per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute minate dalla tubercolosi, che l’opera vedrà la luce. L’impegno redazionale si realizza dunque in condizioni particolarmente avverse per l’autore, alle prese inoltre con un forte travaglio ideologico. L’identità politica di fuoriuscito italiano infatti si configura all’interno di quello che era uno dei principali filoni di opposizione militante al regime fascista, rappresentato dalla nascita del movimento di Giustizia e Libertà. In tale contesto l’attività di Lussu è influenzata dal sodalizio intellettuale con i principali esponenti di questa compagine d’opposizione, Carlo Rosselli e Gaetano Salvemini.
Alle istanze di quest’ultimo, illustre figura della cultura contemporanea, si deve in particolare la genesi definitiva del libro. Nella prefazione, infatti, Lussu scrive che
Fin dal 1921, in seguito alla rievocazione che insieme facevamo della guerra, egli mi aveva chiesto di scrivere un libro: “il libro”, diceva nelle lettere. […] Ad un certo momento, seguendo un filo che avevo nel pensiero da quando avevo letto Del Principe di Niccolò Machiavelli di Federico Chabot, avevo avuto l’audacia di presumere di scrivere sul “Principe”. Il giorno che ne parlai a Salvemini, la nostra amicizia rischiò seriamente di cadere in crisi. Era “il libro” che egli mi reclamava, non già divagazioni sul Segretario fiorentino. In questo modo, è venuto alla luce il libro sulla guerra.
Testimonianza diretta, resoconto, diario. In una coerente unità di tempo e di luogo, sono raccontate le gesta eroiche della Brigata Sassari sull’altopiano di Asiago, dall’estate 1916 al luglio 1917. Emilio Lussu, ufficiale di fanteria della Brigata, si distingue per la caparbietà della sua condotta.
La cronaca delle vicende si addensa nella rappresentazione di frammenti e di episodi che, come rivoli di un corso maggiore, restituiscono con lucidità la portata di uno scenario che raggiunge gli esiti di una «miserabile strage».
L’obbedienza e la disciplina marziale sono scalfite dalle estenuanti condizioni di una quotidianità provata dalle logoranti attese, dall’immobilismo di una tattica militare demandata alla strategia di sortite e assalti, risolti con rapide carneficine. Il sacrifico in controluce alimenta i moti di insubordinazione del fronte. Emerge, netta, una denuncia degli alti comandi militari, additati tra i primi responsabili della sciagura.
Sullo sfondo di queste considerazioni, il tema dell’ammutinamento viene evocato costantemente come rimedio ultimo delle truppe alle condizioni di estremo disagio o di proclamato e inutile rischio, orientando in maniera significativa anche la trama dei ricordi, che si focalizza in alcuni casi intorno a fatti e singole figure, tratteggiate con toni sarcastici. Capita così che la notizia della morte del detestato generale Leone, sebbene in un secondo tempo smentita, sul momento venga festeggiata e salutata a suon di brindisi da tutta la Brigata; il gesto eroico dell’ufficiale Santini, coinvolto in una dissennata operazione, diventa invece lo specchio della delirante strategia di comando incarnata dai superiori.
Ma è nel racconto dell’episodio sull’ammutinamento di interi reparti e sull’acceso confronto tra gli ufficiali, nei capitoli XXIV-XXV, che si concentra tuttavia uno degli snodi ideologici del libro, avvicinando così Un anno sull’Altipiano ai contributi più significativi della memorialistica della Grande guerra, tra tutti forse Viva Caporetto! di Curzio Malaparte.
In Lussu però, diversamente da Malaparte, – che assumendo il punto di vista del «proletariato delle trincee» scorge nella rivolta dei fanti il germe di una nuova coscienza di classe –, l’aspetto della diserzione tende a inscriversi e a diradarsi in un orizzonte, dove prevalgono le istanze di una riflessione orientata su risvolti di natura quasi filosofica, che conferiscono alla testimonianza di guerra un profilo di alto valore letterario, ma anche morale.
Lussu registra infatti la portata dei convincimenti interventisti che un tempo aveva sposato, la loro demistificazione collettiva, e il baratro di senso – di cui le trincee appaiono quasi la plastica rappresentazione – irrefrenabilmente denunciato con ossessione dall’arsura di cognac dei commilitoni.
Il pensiero della guerra sembra condensarsi pertanto in un’imprecazione costante:
Dammi il cognac!
La mutilazione del pensiero causata da una massacro senza ragione non annulla però i riflessi di uno sguardo diverso, assunto da una angolazione opposta a quella dominante. Tutte le volte infatti che l’autore concentra lo sguardo su un punto di osservazione ravvicinato, la visione si rivela più intensa e compiuta. Una tecnica che, con le parole di Asor Rosa, «ha anche una valenza etica, psicologica. Ciò che si osserva da molto vicino, cambia aspetto: e può accadere che un nemico torni ad essere uomo».
Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Un uomo! Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell’alba si faceva più chiara ed il sole si annunciava dietro la cima dei monti. Tirare così, a pochi passi, su un uomo…come un cinghiale! […] Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo.
Un’evocazione identificabile con altri momenti della Grande guerra, quando il furore dell’odio lasciò il posto al senso di affratellamento. Uno degli episodi collettivi più significativi è avvenuto durante la tregua di Natale del 1914 quando, sul fronte occidentale, i tedeschi sospesero le azioni di comune accordo con gli inglesi e i francesi.
La voce di un soldato inglese, Tom, descrive così quell’evento:
Non ho mai creduto di poter vedere una cosa più strana e più commovente. Grappoli di piccole luci brillavano lungo tutta la linea tedesca, a destra e a sinistra, a perdita d’occhio. “Che cos’è?” – ho chiesto al compagno, e John ha risposto: “Alberi di Natale!”. Era vero. I tedeschi avevano disposto degli alberi di Natale di fronte alla loro trincea, illuminati con candele e lumini. E poi abbiamo sentito le loro voci che si levavano in una canzone: “Stille Nacht, Heilige Nacht…”. Quando il canto è finito, gli uomini nella nostra trincea hanno applaudito. Sì, soldati inglesi che applaudivano i tedeschi! Inglesi e tedeschi che s’intonano in coro attraverso la terra di nessuno!” “Non potevo pensare niente di più stupefacente, ma quello che è avvenuto dopo lo è stato di più. “Inglesi, uscite fuori!”, li abbiamo sentiti gridare, “Voi non spara, noi non spara!”.
Gesti abusivi, rovesciati, contro protocollo! Simboli di un significato più denso e profondo, covato nell’avvento di un mistero, che nemmeno il più corrosivo dei cognac è riuscito totalmente a sciogliere e soffocare.
di Lorenzo De Luca