Amélie Nothomb e Kierkegaard
Se esistesse un modo privo di retorica, ma non di ironia, capace di arrivare dritto al cuore per narrare le umiliazioni subite da una donna occidentale in una multinazionale giapponese, questo sarebbe quello creato da Amélie Nothomb, scrittrice belga dai trascorsi nipponici, nel suo “Stupore e tremori”, Grand Prix du roman dell’Académie française nel 1999, anno della sua pubblicazione.
Non solo Amélie ci ricorda quanto possano essere scomode l’intraprendenza e la vivacità intellettuale in un ambiente standardizzato e fortemente gerarchico, avverso allo straniero, come è tale colosso Yumimoto. Ma la scrittrice ci consegna un manuale di sopravvivenza per quello che oggigiorno sarebbe perseguibile come reato di stalking occupazionale. E lo fa sia con una fresca ironia priva di sarcasmo o rivendicazioni, che con una prosa minimale priva di fronzoli.
La morale è presto fatta e la si trova alla fine della vicenda quando, dopo il crescendo di declassamenti, la protagonista Amélie viene destinata a responsabile dei cessi. Ecco la goccia che fa traboccare il water closet, ecco lo sciacquone tirato ed ecco le dimissioni consegnate.
Nel fantastico mondo di Amélie che tratta lo stalking con la leggerezza dei fanciulli o delle grandi menti, a voi la scelta, c’è spazio per una rivincita tutta personale, tutta artistica, tutta delicatezza insegnataci dalla scrittrice belga nel breve tempo di 110 pagine.
Se “Timore e tremore” di Kierkegaard, opera del 1843 del filosofo danese sul sacrificio di Isacco fatto da Abramo, sia o non sia stata fonte di ispirazione per la Nothomb non è dato a sapersi, ma accomuna le due opere il tentativo di rispondere ad una domanda:
Esiste una sospensione teleologica dell’etica?
Abramo sacrificando il figlio Isacco a Dio si pone al di fuori di qualsiasi morale, egli come singolo è diventato più alto del generale, è il paradosso che non si lascia mediare.
Sotto questa ottica l’Amélie di “Stupore e tremori” si dissocia dall’etica meschina dell’organizzazione capitalistica, prima in maniera liberale grazie all’ironia, quindi rassegnando le dimissioni e infine ritrovando se stessa nella rivincita estremamente personale, spirituale almeno in parte, della narrazione artistica.
“Stupore e tremori” si trova nella traduzione di Biancamaria Bruno nella collana “Le Fenici tascabili” di Ugo Guanda editore e fu precedentemente pubblicato da Voland Edizioni.
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