Culturificio
pubblicato 4 anni fa in Altro

Di librerie indipendenti, covid e altre amenità

rispondono Bookish e Tlon

Di librerie indipendenti, covid e altre amenità

Come riporta l’inchiesta del «New York Times» del 15 ottobre, da quando la pandemia è iniziata più di una libreria indipendente a settimana ha dovuto chiudere; su «Lit Hub», l’editor Jonny Diamond qualche settimana fa ha chiesto di sostenere le librerie locali, evitando di fare acquisti su Amazon («Jeff Bezos has become a billionaire several times over during this pandemic by manipulating our addiction to consumer convenience — don’t give him more of your money»).

Anche da noi la situazione non è molto diversa, perché la pandemia si è abbattuta con forza inaudita su un settore già in precario equilibrio come quello dell’editoria.

Durante il lockdown, i librai hanno rispolverato le biciclette per reinventarsi corrieri e hanno spedito pacchi e pacchetti in tutta Italia, si sono attivati con eventi online, hanno scritto newsletter ancora più corpose e/o scherzose, continuando quel loro ruolo essenziale e necessario, per quanto sottovalutato dalle stesse istituzioni, all’interno del tessuto culturale del nostro paese. Quando il decreto del Presidente del Consiglio ha previsto per il 14 aprile la riapertura delle librerie, giudicandole attività fondamentali, i librai con la loro solita forza – non useremo il termine resilienza – non si sono tirati indietro di fronte a questa nuova sfida, nonostante tutte le incertezze e le difficoltà del caso [come denunciavano già con questo appello]. Hanno sanificato amorevolmente ogni libro toccato – per forza di cose, chi frequenta una libreria sa che si cerca un incontro anche tattile con le pagine –, hanno in alcuni casi persino ripensato e reinventato il loro locale, per valorizzare al massimo lo spazio disponibile, hanno contingentato gli accessi e dispensato, insieme ai consigli di lettura, gel per le mani per permettere a tutti i lettori di tornare.

In piena pandemia è nato Libri da asporto, un network per mantenere e rafforzare il legame tra editori, librerie rigorosamente indipendenti e lettori in un contatto a distanza, mentre sul finire di agosto alcune librerie indipendenti italiane si sono coalizzate contro il colosso di Amazon nell’e-commerce Bookdealer (sull’esempio di realtà già esistenti negli Stati Uniti, Bookshop, o in Francia, Librairies independantes).

Le librerie indipendenti hanno dunque reagito all’emergenza covid e continuato a esercitare il loro ruolo di presidio sociale e militanza culturale, ricordandoci, se fosse ancora necessario, che non sono soltanto spazi fisici o negozi: radicate nel territorio, sono rimaste vicini ai lettori come luoghi e momenti di confronto e incontro.

Nel dpcm del 3 novembre i libri sono stati giudicati beni di prima necessità, e alle librerie è stata data la possibilità di rimanere aperte anche nelle zone rosse, a differenza di quanto successo in Francia, uno dei paesi europei con la più alta percentuale di lettori: iconiche le foto di lunghissime file davanti le librerie poco prima del lockdown a Parigi. La sindaca Anne Hidalgo ha inoltre lanciato un appello ai parigini di non comprare libri su Amazon, ma di affidarsi alle librerie locali.

Abbiamo deciso quindi di dare spazio ad alcune di queste realtà e di sentire le voci di due librai indipendenti di Roma, ai quali siamo legati per le più disparate ragioni, interrogandoli su diversi temi: in primis che cosa significa avere una libreria indipendente, qual è la sua importanza e perché chiunque ami la lettura dovrebbe sceglierla al posto di Amazon; poi, per far sì che ognuno si potesse raccontare, abbiamo chiesto i criteri con i quali sceglie i libri che riempiono gli scaffali della sua libreria e se ha una casa editrice preferita tra la piccola e la media editoria; tornando ancora a ragionare su questo assurdo periodo, abbiamo voluto sapere come sono riusciti a mantenere il dialogo con i lettori e quali eventi, attività o strategie hanno messo in atto durante il lockdown o hanno intenzione di adottare. Infine, abbiamo chiesto uno o due consigli librari per i nostri lettori.


Per Bookish (Via Valle Corteno 50/52) così parlò Giorgia Sallusti:

A che serve una libraia? Ci sono libri che avete letto, quelli che vi mancano ma conoscete per sentito dire e quelli che proprio non avete idea che esistano. Questa montagna di libri sono al di là della vostra conoscenza ed è qui il terreno di gioco della libraia. Internet è meraviglioso. Cerchi quello di cui hai bisogno, quello che vuoi, e internet te lo dà. Soddisfa i tuoi desideri di acquisto o conoscenza. Ma ottenere ciò che vuoi non è sufficiente: «le cose migliori sono quelle di cui non conoscevi l’esistenza fino al momento in cui non le hai avute», dice Mark Forsyth in L’ignoto ignoto. Se le tue ricerche online ti profilano come potenziale cliente, i risultati che otterrai saranno di continuo più simili a questa tendenza, e così la bolla che abiti culturalmente ti si stringerà sempre più attorno. La libraia può essere l’antidoto all’algoritmo. Il mio lavoro, se lo faccio bene, è rompere i confini di questa bolla e allargare il tuo orizzonte di lettore.

Ho deciso di fare la libraia – anzi, di essere una libraia – perché così sono riuscita a improntare la vita attorno all’oggetto che amo di più, che è il libro. È frustrante, semicatastrofico dal punto di vista prettamente economico; anzi, se consideriamo la libreria come azienda possiamo vedere chiaramente che è un’operazione fallimentare già alla partenza. Eppure, la libreria è un’impresa culturale dove lo scopo non è l’arricchimento monetario. Il mio obiettivo è la promozione e la diffusione dei libri belli con in testa l’idea che il libro vada tolto dalle teche polverose dove è stato rinchiuso negli ultimi decenni, e torni a essere invece anche l’intrattenimento per eccellenza. Ecco, come libraia mi piace che il luogo che ho costruito sia un punto di incontro e discussione, sulla letteratura e alla fine anche sulla vita: non era Umberto Eco che diceva che la lettura è un’immortalità all’indietro?

Bookish vive cucita addosso a me, è emanazione del mio gusto e della mia competenza, semmai ce ne fosse una che sia una. Per questo la mia libreria è una scelta ottimale per letture inconsuete, fuori dai sentieri più battuti. Con una formazione da yamatologa e con l’amore per l’Oriente tutto, da quello vicino a quello più estremo, posso dire che riempio i miei scaffali con le traduzioni migliori che riesco a trovare delle letterature di tutto il mondo. È un lavoraccio, ma sempre più stimolante poiché case editrici interessanti (e indipendenti, dettaglio non casuale) sono sul pezzo, e penso a e/o, Racconti, Add, Nottetempo, Safarà tra le altre, assieme alla collana Compagnia extra di Quodlibet di cui non mi faccio mancare un libro.

I mesi del lockdown hanno visto azzerarsi il rapporto diretto libraia-lettore, costringendomi come in un racconto di Akutagawa a ricalibrare il mio lavoro sull’assenza: presentazioni online, recensioni, videoletture e soprattutto social network sono gli ingredienti di una ricetta che per ora sembra ben riuscita e di gran gusto, ma che abitua a parlare allo schermo, quasi affidassi a C1-P8 le mie recensioni come una Leila Organa più rustica.

La vitalità delle librerie che ci preoccupa in questi tempi apocalittici è però solo l’ultimo atto di una lunga agonia, estesa al sistema editoriale italiano, già fiaccato dalla mancanza di lettori e da un ciclo distributivo che non si sostiene più con la solidità di favoleggiate età dell’oro (quelli che hanno vissuto gli anni ’90 dicono gli anni ’80, quelli che hanno vissuto gli ’80 i ’70, noi mi sa che abbiamo perso il tram). L’epidemia globale è partita da un pangolino asiatico per trasformarsi da infezione sanitaria a contagio economico: le casse dei librai, che con i dpcm hanno abbassato e poi rialzato le saracinesche, erano quasi vuote già da prima. Come libraia di questa generazione ci sono abituata: «da “disagiati” quali siamo, la classe creativa del paese, il debito è la nostra cifra, il nostro vero “capitale simbolico”» dice Emanuele Giammarco, editore di Racconti, ed è difficile dargli torto.

Ma io lo sapevo già che ero in grado di fare il nostro lavoro meglio di un motore di ricerca: ho dispensato consigli libreschi e consegnato libri coi guanti in androni scuri e buste anonime, nella città eterna in cui la consegna a mano era proibita o quantomeno non legiferata durante il primo lockdown. E poi, i pacchetti: i librai indipendenti sono più bravi di Amazon, si sa, ma stavolta hanno stracciato il colosso della concupiscenza online sul suo stesso terreno, ovverosia le spedizioni. Un sostegno di questo tipo che ha avuto una risposta di tale impatto mi fa riflettere su quanto la spedizione possa essere un fattore da tenere presente quando si ripenserà – perché si dovrà farlo, e in molti lo stiamo già facendo da qualche mese – al modo di «fare libreria» post-pandemia. Il risultato è stato anche Bookdealer, la piattaforma per l’e-commerce nata a fine agosto e dedicata esclusivamente alle librerie indipendenti, che sta godendo di un discreto successo, e consente al lettore di navigare tra le proposte di ogni libreria prima di scegliere dove acquistare. Una risposta di pancia dei lettori forti, da tutta Italia, che mi pacifica con la sensazione che non siamo solo noi addetti ai lavori a considerare il libro come merce essenziale. Di cultura si parla sempre «con una voce a mezza strada tra la pietà e il rispetto» per dirla con Penelope Fitzgerald.

E ora veniamo al cuore di quello che faccio: i consigli librari. Questo per me è l’anno di due libri in particolare, che si dividono il posto sul podio di libro del duemilaventi. Il primo è Lot di Bryan Washington (traduzione di Emanuele Giammarco, Racconti), il libro che racconta meglio di qualunque altro il profilo delle nuove città, nella fattispecie Houston, la marginalità, la contaminazione, con una lingua anch’essa nuova, esplosiva e diretta. Il secondo – anzi no, il primo a pari merito – arriva dal Giappone: Kawakami Mieko scrive in Seni e uova (traduzione di Gianluca Coci, e/o) di corpi, mestruazioni e libertà con uno stile sciolto e colloquiale che tiene al centro la forma femminile, la vita, la sessualità, con stile e ritmo da vendere. Due libri che arrivano dall’oggi e ci parlano di mondi solo apparentemente lontani costringendoci a fare i conti col nostro quotidiano, libri dai quali si esce scossi e senza le certezze che si avevano quando ci si è entrati dentro. Libri per i quali vale bene la pena fare la libraia.


Michele Trionfera invece ci ha portato dentro Tlon (Via Federico Nansen 14):

Non è mai facile parlare di che significato dare alla parola “indipendente”. Se poi questo aggettivo viene accostato a quell’altra parola, suggestiva ed evocativa, che è “libreria”, allora la questione si complica ulteriormente. Nel tentativo di sciogliere un po’ questo nodo, anni fa mi sono imbattuto in una bella definizione del giornalista americano Norman Cousins: «una libreria non è un santuario per il culto dei libri ma la sala parto per la nascita delle idee, un posto dove la storia viene alla luce». Poco importa che lui parlasse in realtà delle biblioteche, perché forzando un po’ la mano con la traduzione ecco aprirsi una visione feconda e lungimirante.

La Libreria Teatro Tlon apre nell’ottobre del 2016, all’interno del progetto Tlon, fondato da Maura Gancitano e Andrea Colamedici e Nicola Bonimelli. L’idea alla base era quella di avere una sorta di centro culturale che fungesse da collettore per tutte quelle idee e attività che ritenevamo importanti mettere al mondo, e che accogliesse quotidianamente tutte quelle persone interessate a partecipare a una riflessione collettiva sul presente. Fin da subito quindi, il lavoro della libreria si è mosso sui due piani della proposta di libri e dell’ideazioni di eventi, con la ferma convinzione che se c’è qualcosa che il commercio digitale faticherà sempre a riprodurre è proprio l’occasione di incontro e di socialità che il presidio fisico ha nel suo dna. È per questo infatti, che sulla scorta delle parole di Cousins, una delle parole chiave del nostro lavoro è sempre stata proprio “futuro”.

E proprio “futuro” è la parola che l’emergenza sanitaria legata al Covid-19 ha portato prepotentemente all’attenzione anche di tutto il mondo editoriale, con le librerie impegnate in primissimo piano a escogitare strategie alternative e solide attraverso le quali traghettare il loro lavoro in un nuovo scenario. Con l’esperienza del primo lockdown, si è rafforzata la nostra convinzione di potenziare i canali di vendita online attraverso una selezione di testi e una strutturazione dell’offerta di libri che fosse un prolungamento con altri mezzi di ciò che svolgevamo dal vivo. E inoltre, convertendo il calendario di eventi in un palinsesto online sulle nostre pagine social, abbiamo sperimentato, e stiamo ancora sperimentando, come una libreria sia un vero e proprio luogo di produzione di contenuti culturali, capace di produrre anche una variante “digitale” di quelle occasioni di incontro che al momento continuano a essere irrealizzabili. Proprio in quest’ottica abbiamo iniziato a lavorare a un progetto che vedrà la luce nei prossimi mesi e che punterà a trasformare anche lo spazio stesso della libreria fisica in una forma diversa e inedita capace di cogliere e attivare alcune potenzialità dei prodotti culturali meno “classici” del libro ma che possono dialogare e instaurare un circolo virtuoso con i libri stessi.

Se “futuro” è quindi una delle parole chiave che meglio identifica la vocazione di una libreria, e che trova la sua espressione massima nello sperimentare nuove declinazioni delle sue funzioni, l’altro importante aspetto del nostro lavoro ha come idea guida il concetto di “sensibilità”. Sensibilità intesa come facoltà di percepire stimoli esterni, e come disposizione a condividere emozioni altrui. È la “qualità” più importante per un libraio, quella che lo distingue da qualsiasi algoritmo e gli permette di accorgersi del mondo che c’è oltre i confini di un libro. Il modo in cui scegliamo i libri da proporre, nel punto di vendita fisico e in quello online, risponde all’esigenza di offrire strumenti e aperture di senso su un presente che è complesso e che ha bisogno di essere vissuto e compreso. Un po’ per questo, e un po’ per il lavoro che noi tutti che stiamo qui in libreria facciamo anche in casa editrice (Edizioni Tlon), una delle peculiarità dei nostri scaffali è una vasta offerta di saggistica che spazia dalle tematiche esoteriche agli argomenti di attualità e attivismo, di educazione ambientale e studi di genere. Naturalmente non manca la letteratura, la sezione dedicata ai luoghi e alla letteratura di viaggio, le graphic novel, la musica, il cinema e il teatro, la poesia. Ma anche in tutte queste altre sezioni o categorie, la linea guida nella nostra selezione è sempre che un libro racconta molto più di quello che ha dentro, perché è una straordinaria occasione di incontro tra persone. E per questo, lo abbiamo fatto in passato e lo rifaremo ancora, sempre per sopperire alle difficoltà di scambio che l’emergenza sanitaria ci costringe ancora a vivere, abbiamo attivato una sorta di sportello online per i consigli del libraio, che spesso sono un vero e proprio spazio in cui parlando di libri si parla un po’ di se stessi.

E a proposito di consigli, ecco i nostri due consigli librari:

Il primo è uscito da poco, ed è Tutti i racconti di Javier Marías (Einaudi, 2020), la raccolta dei racconti di uno dei più importanti scrittori contemporanei, un vero e proprio chirurgo delle anime e dei sentimenti; il secondo è uno dei libri che da sempre consigliamo e rileggiamo e che non può mai mancare sui nostri scaffali, Il codice dell’anima di James Hillman (Adelphi, 1996).


L’immagine è presa da «Publishers Weekly» – posto che non se ne accorgeranno mai, speriamo non si arrabbino. L’iniziativa è a cura di Susanna Ralaima.