Gianmarco Canestrari
pubblicato 6 anni fa in Altro

A tavola!

percorsi storico-culturali sul cibo

A tavola!

Quella sul cibo è una delle questioni più aperte e dibattute di tutta la storia dell’umanità, tanto da coinvolgere cultura, tradizioni, religiosità e modi di interpretare la vita. Non è facile catalogare o collocare in un unico gruppo la vastità delle opinioni che ogni cultura ha espresso riguardo all’alimentazione e al significato da attribuire ad ogni cibo che è permesso all’uomo di mangiare. Potremmo spingerci ad affermare che esistono tante teorie intorno al cibo e alla commestibilità quante sono le culture e le etnie che popolano il pianeta. Per comodità e per non dilungarci troppo prenderemo in esame i dettami culinari ed alimentari espressi dai tre monoteismi del mediterraneo. Non possiamo disgiungere il cibo e le norme che lo regolano dalla sfera del sacro e del numinoso, anche perché queste norme nascono e sono il frutto di una complessa sistematizzazione teorica e speculativa di stampo religioso. Quasi tutte le forme di religiosità, ad eccezione del cristianesimo, proibiscono ai propri fedeli il consumo della carne di maiale e la considerano peccaminosa al fine della salvezza. L’impurità e la negatività legati alla figura del maiale sono ben evidenti in tutta la Scrittura ebraica: basti pensare ai testi del Pentateuco come il Levitico e il Deuteronomio che vietano espressamente di mangiare, tra i tanti animali, proprio il maiale:

Potrete mangiare di ogni quadrupede che ha l’unghia bipartita, divisa in due da una fessura, e che rumina. 7 Ma non mangerete quelli che rùminano soltanto o che hanno soltanto l’unghia bipartita, divisa da una fessura e cioè il cammello, la lepre, l’ìrace, che rùminano ma non hanno l’unghia bipartita; considerateli immondi; 8 anche il porco, che ha l’unghia bipartita ma non rumina, lo considererete immondo. Non mangerete la loro carne e non toccherete i loro cadaveri.  Deuteronomio 14,3-8.

Per il mondo ebraico tutto ciò che rientra in kasherut (“adeguatezza”) è definito kasher, ovvero adatto ad essere consumato dagli uomini. Al contrario, tutto ciò che non vi rientra deve essere considerato incommestibile, scartato ed evitato (come accade per il maiale): basti pensare che, proprio per sottolineare la proibizione di tale carne, il Talmud non cita nemmeno il nome dell’animale, ma preferisce l’espressione davar acher (“altra cosa”). Stessa situazione teorica e teologica è condivisa dal mondo islamico, per il quale mangiare carne di maiale è haram, proibito. Il maiale è un animale immondo, impuro e come tale deve essere evitato per non “contaminare” la propria anima.

Vi sono vietati gli animali morti, il sangue, la carne di porco e ciò su cui sia stato invocato altro nome che quello di Allah, l’animale soffocato, quello ucciso a bastonate, quello morto per una caduta, incornato o quello che sia stato sbranato da una belva feroce, a meno che non l’abbiate sgozzato e quello che sia stato immolato sulla pietra. Corano, sura 5 – Al Ma’ida (la tavola imbandita).

Tali problematiche, anche se in un primo tempo erano restie ad essere eliminate, vennero sorpassate e rivisitate dal cristianesimo, che di per se, a parte nei periodi comandati di digiuno e astinenza, non vieta espressamente la carne di maiale, ma anzi lascia libero campo alla sensibilità di ogni credente. Per il cristiano il cibo non può essere immondo o impuro, perché tutto è opera del Creatore che non può fare altro che cose buone e utili all’uomo. Ricorda Gesù che non è ciò che entra dalla bocca dell’uomo ad essere dannoso, ma ciò che esce dalla sua bocca è fonte di male e peccato. Lo stare a tavola, il condividere lo stesso cibo e l’armonizzarsi dei convitati è ciò che ben si esprime, soprattutto in una logica come quella cristiana, nella figura del pane. Il pane rappresenta la comunione, l’unione, la condivisione col prossimo dell’opera delle nostre mani e della nostra fatica; è il vincolo d’unione della famiglia che si riunisce e che si ritrova a tavola. È così importante che presso gli ebrei c’è una singolare benedizione recitata appositamente dal capo della famiglia. Quindi un alimento ricco di significato che, grazie alla predicazione di Gesù, assume per i cristiani un ulteriore significato oltre quelli elencati: il pane diventa il Corpo stesso di Cristo; Gesù stesso si fa Pane del Cielo per gli uomini bisognosi di essere accuditi e nutriti. Egli stesso si è fatto uomo, ha mangiato tra gli uomini, ha spezzato il pane coi suoi discepoli, e ne ha fatto oggetto di numerosi miracoli e parabole (si pensi alla moltiplicazione dei pani e dei pesci o alla parabola del pane lievitato). Anche l’islam ha una speciale “venerazione” per il pane, tant’è che l’immagine delle spighe di grano, della mietitura e del seme ricorre spesso nel Testo sacro per sottolineare comportamenti e pratiche buone da seguire nella vita quotidiana (si veda , per es. il tema dell’elemosina nella sura II). C’è chi ha ipotizzato che forse anche i simboli del mondo islamico rimandino in qualche modo all’immagine del pane e della mietitura. Per non farci mancare nulla, potremmo parlare di come i monoteismi trattino il tema delle bevande, in particolar modo del vino. Il frutto della vite è connotato sia da un significato negativo, come testimoniano vari testi della Bibbia (le storia di Noè e di Cam, quella di Lot e di Esaù), sia da uno positivo, in quanto il vino diventa parte essenziale del rito liturgico. Ciò è ben sottolineato nel cristianesimo, dove il vino conserva ancora la sua ambivalenza, ma assume un significato “altro”, particolare: esso diventa il Sangue di Gesù che si sacrifica sulla croce per la salvezza di tutti gli uomini. La riflessione cristiana non bandisce quindi l’uso e il consumo del vino proprio perché Gesù è lo Sposo e tutti noi siamo chiamati alla sua mensa, siamo chiamati a festeggiare, a rallegrarci e ad esultare per le nozze. È interessante considerare come il mondo musulmano rivisiti la storia della caduta di Adamo ed Eva: è propria della riflessione islamica l’ipotesi che il frutto tanto proibito nel giardino di Eden sia non una mela, ma l’albero della vite (perché da essa si ricava la bevanda proibita) le cui foglie fecero da vestiario alla nudità della coppia originaria. Insomma, come abbiamo potuto constatare, tutto ciò che l’uomo fa oggetto di consumo è disciplinato da regole, a volte rigide e inflessibili, a volte meno, che cercano di inquadrare il cibo o la bevanda che assumiamo all’interno di un più ampio contesto etico-teologico-pratico. Non è quindi una novità che le religioni, quali espressioni profonde dell’animo umano, si siano espresse, oltre che sul sovrasensibile, su tutto ciò che è oggetto della nostra quotidiana esperienza e, tra tutti i campi dello scibile umano, vi è proprio quello dell’alimentazione che ha impegnato l’ambito del sacro in una vera e propria distinctio, tenendo conto del contesto storico,culturale e geografico, tra “lecito-illecito”, “adeguato-proibito”, “puro-impuro”. Ecco allora che cibo e bevande si configurano come la “tavola” di lavoro e di incontro privilegiata tra culture e religiosità differenti.