Benjamin e Brecht: parole e immagini
Nell’istante, però, in cui alla produzione manca il criterio dell’autenticità dell’arte, anche l’intera funzione sociale dell’arte si trasforma. Al posto di una sua fondazione nel rituale s’instaura una sua fondazione su una prassi diversa, vale a dire un suo fondarsi sulla politica. (W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1998, p.13).
Per Walter Benjamin e Bertolt Brecht, bisognava rifunzionalizzare l’arte della modernità. Le opere (artistiche, letterarie) hanno perso ciò che il primo definiva l’aura, ovvero la loro irripetibilità, perché sono soggette a una continua riproduzione che dai dispositivi mediali arriva fino ai giornali illustrati e soprattutto al cinema. Se l’arte dapprima manteneva una dimensione sacra, un valore cultuale, con la riproducibilità essa ottiene invece un valore espositivo, alla stregua delle altre merci proprie di una società capitalistica. Benjamin, negando l’assolutezza della rappresentazione artistica, sta contestando anche la realtà che questa tende a rappresentare. La riproducibilità tecnica porta il lettore (o lo spettatore) a subire uno choc, perché cambia il modo in cui gli vengono sottoposte le immagini ed egli non riesce a leggerle criticamente. In letteratura, «Baudelaire ha posto l’esperienza dello choc al centro stesso del suo lavoro artistico» (W. Benjamin, Angelus Novus, Saggi e frammenti, trad. it di R.Solmi, Einaudi, Torino 1981, p.97) perché si è relazionato diversamente alla modernità, conferendo alla poesia significati nuovi e superando la concezione elitaria del poeta escluso dalla vita degli uomini.
La funzione dell’arte perpetuata dalla borghesia, i cui esiti estremi sono rappresentati dalle derive autoritarie dei fascismi, vanifica ogni tentativo di cambiamento del rapporto tra la rappresentazione artistica e la società. Per rifunzionalizzare l’arte occorre esprimersi al di fuori dei mezzi che la società stessa offre, perché ogni pensiero espresso nei modi tradizionali, anche il più rivoluzionario, perde la sua forza comunicativa ed è in un certo senso previsto dal sistema (Adorno dovrà molto a Benjamin per la sua riflessione sull’industria culturale). Benjamin e Brecht propongono una «letteralizzazione dei rapporti vitali», una sopravvivenza decisiva della parola nella contemporaneità. Nel saggio Autore come produttore, un discorso tenuto all’Istituto per lo studio del fascismo il 27 aprile del 1934, Benjamin non si chiede qual è la posizione di una determinata opera d’arte nei confronti dei rapporti di produzione ma qual è la sua posizione all’interno di tali rapporti. Si tratta di conoscere e cambiare la funzione di un’opera: inutile criticare la mercificazione dell’arte se l’opera non reagisce allo schema di valori che si vuole sostituire. Per un’arte nuova e contemporanea servirà quindi una nuova tecnica letteraria. Bisogna lavorare sui mezzi. Anche Brecht sostiene la medesima idea: «[…] ecco qui una proposta per modificare il funzionamento della radio: si dovrebbe trasformare la radio da mezzo di distribuzione in mezzo di comunicazione» (B. Brecht, La radio come mezzo di comunicazione). La parola trova un’analoga necessità di esistere anche in campo musicale, quando Benjamin chiosa un pensiero del musicista Eisler, sostenendo che «il compito di trasformare il concerto non può essere assolto senza la collaborazione della parola» (W. Benjamin, Autore come produttore, in Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, Einaudi, Torino 1979, p.210). La Nuova Oggettività, per esempio, propugna un messaggio rivoluzionario attraverso forme tradizionali, diventando perfino, provocatoriamente, reazionaria. A proposito delle fotografie della raccolta Il mondo è bello di Renger-Patsch, esponente di questo movimento, Benjamin è radicale: esse sono «un drastico esempio di ciò che significa rifornire un apparato di produzione senza cambiarlo» (ivi, p.209). L’immagine lega il fruitore a un’interpretazione univoca, trasfigura il mondo naturale, non conduce alla verità. Per avvicinarsi a essa occorre qualcosa che generi un contrasto e aiuti a leggere una fotografia senza prendere passivamente per vero il messaggio che essa ci propone, una visione del mondo di altra natura che controbilanci e interagisca con l’immagine: la scrittura, la lingua, le parole. L’uomo, secondo entrambi gli intellettuali, è uomo nel pieno senso della parola solamente quando pensa e commenta. La facoltà critica è il fondamento di tale umanità. Nella sua Piccola storia della fotografia (1931), citando un pensiero dell’artista ungherese Moholy-Nagy, Benjamin scrive che «non colui che ignora l’alfabeto, ma colui che ignora la fotografia sarà l’analfabeta del futuro». Ruth Berlau, curatrice dell’Abicì della guerra (1955), opera incompiuta di Brecht alla quale egli lavorò per vent’anni, introduce il volume così: «Non sfugge al passato colui che dimentica. Questo libro vuole insegnare l’arte di leggere le immagini. Poiché, per chi non vi è abituato, leggere un’immagine è difficile quanto leggere dei geroglifici».
La didascalia non è spiegazione dell’immagine ma contrasto, straniamento, coerentemente con il teatro epico teorizzato e concretizzato da Brecht, contro l’immedesimazione aristotelica e la catarsi. Lo spettatore pertanto si relaziona alla fotografia mediante la sua facoltà di giudizio critico e non si accontenta del primo e più manifesto significato di un’immagine senza porsi delle domande. Scrive Benjamin: «Ciò che dobbiamo pretendere dal fotografo è la capacità di dare alla sua fotografia quel commento scritto che la sottrae all’usura della moda e le conferisce un valore d’uso rivoluzionario» (Autore come produttore, p.209). Non possiamo quindi considerare la fotografia come un atto intuitivo, perché significherebbe assumere passivamente l’interpretazione di altri. La scrittura interviene a rompere l’automatismo di una visione immediata. L’autore costruisce sempre le sue immagini, anche qualora volesse conferire loro un effetto di realtà: le fotografie, per esempio, vengono astratte dal contesto, sono private di riferimenti cronologici e geografici, rappresentano un punto di vista. Lo spettatore detiene il diritto e il dovere di manifestare i proprio pensieri e attraverso la critica, rappresentata dalla didascalia, si avvicina a una lettura più consapevole degli interessi che vengono articolati dietro le immagini. Anche per Brecht esiste sempre un’alternativa e con i brevi componimenti affiancati alle fotografie nell’Abicì della Guerra egli vuole contrastare una visione del mondo per riempire l’insieme di significati e permettere a chi legge un’immagine di lavorare a una propria idea. Il reale si costruisce con rappresentazioni e prospettive differenti e neanche le parole raggiungono una loro autonomia: immagini e parole sono interdipendenti. Quelli che Brecht compone già dal 1938 fino alla sua morte sono ‘epigrammi fotografici’, pensieri che si accompagnano a ritagli di giornali illustrati, ovvero a materiale decontestualizzato da cui ragionare criticamente. I testi e le fotografie di questa raccolta sono un esempio di che cosa Brecht e Benjamin intendevano con letteralizzazione dei rapporti vitali e sociali. Brecht tenta di ricordare a chi legge queste immagini che gli uomini possono ancora trovare l’umanità, benché si tratti di un’umanità logorata da guerra, miseria, povertà, morte.