Alessandro Foggetti
pubblicato 11 mesi fa in Cinema e serie tv

“Bones and All” di Luca Guadagnino

“Bones and All” di Luca Guadagnino

Tratto dall’omonimo romanzo Fino all’osso di Camille DeAngelis (Panini Books, 2015), Bones and All (2022) di Luca Guadagnino, disponibile su Prime Video, narra un’atipica storia d’amore tra due giovani protagonisti alle prese con un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti e un oscuro segreto da condividere.

Fine anni Ottanta, Virginia (Stati Uniti). La giovane Maren (Taylor Russell) viene abbandonata improvvisamente dal padre, Frank (André Holland). Da sola, con un bagaglio carico di rabbia e di tristezza, decide di intraprendere un lungo viaggio e cercare sua madre. Durante il tragitto incontrerà due personaggi che le cambieranno la vita: l’inquietante Sully (Mark Rylance) e il giovane Lee (Timothée Chalamet).

Solitudine, emarginazione e fuga da quello che sembra un destino inevitabile. Già dalle prime scene del film capiamo che Maren vive in una condizione economica molto complessa. Il quartiere dove risiede, la vecchia station wagon del padre e casa sua, una sorta di prefabbricato, sono delle chiare linee che determinano il perimetro spazio-temporale, il contesto, in cui è immersa la protagonista.

Questa breve panoramica sociale è utile per introdurre l’elemento irreale e orrorifico delle vicende: Maren è una cannibale. In lei è presente un istinto naturale, un desiderio che non può sopprimere, quello di carne umana – ed è proprio questo il motivo che spinge il padre ad abbandonarla, lasciandole come ultimo “dono” una registrazione su cassetta con gli aneddoti feroci e sanguinosi della sua infanzia.

Rimasta sola ed emarginata con la sua “diversità”, l’unico modo per riuscire a comprendere la sua natura, e per trovare un minimo di sollievo emotivo, è di trovare la madre, sulla quale ha poche e striminzite informazioni.

Avere un problema e pensare di essere l’unica a possederlo. È questo il pensiero di Maren prima di incontrare lo strano Sully, un personaggio emotivamente inquietante che all’apparenza sembra lo stereotipo di un nativo americano: la treccia, il cappello con la piuma, il coltello nella fondina e la vecchia sacca con i suoi “trofei”. Sully, con la sua anzianità ed esperienza, sembra rappresentare l’origine antica del cannibalismo – del resto è grazie al suo insegnamento che Maren impara a sentire l’odore dei propri simili e delle prede –, o anche, metaforicamente, il destino da cui non si può scappare. Il vecchio Sullivan compare in diversi momenti delle vicende, scandisce il tempo della narrazione, delle fratture psicologiche e dei ricordi dolorosi. È un orologio che detta l’ora a Maren e le ricorda in che momento si trova. Ma può anche rappresentare un vecchio “dinosauro” che cerca di distruggere il fragile sogno americano e non permette ai più deboli e agli emarginati di cambiare il proprio fato.

Il viaggio di Maren continua e durante il breve rifornimento in un supermercato si imbatte finalmente in Lee. Giovane, solitario, emarginato. E come lei, ha lo stesso desiderio, la stessa natura. Lee e Mare, vinti dalla loro condizione, alla continua ricerca di qualcosa, un luogo, una persona. O semplicemente alla ricerca dell’affetto e dell’amore di qualcuno. Si trovano, si conoscono e si amano, nonostante le difficoltà dei loro percorsi. Entrambi hanno avuto problemi con la propria famiglia – il padre di Lee era un alcolista e un violento – e abbandonato la scuola; si sentono scartati dalla società e da quello che pensano rappresenti; non hanno speranze per il futuro.

Questo macro-universo emotivo e sociale viene spaccato dall’irreale, da quell’elemento orrorifico e paradossale su cui gira la narrazione, ovvero il cannibalismo. La fame di vita e di speranza si trasforma in un avido desiderio di sangue e carne umana. Bones and All è una fiaba grottesca ambientata nella spietata realtà dell’emarginazione.

Per i protagonisti la direzione da percorrere, l’unica possibile, è quell’irrefrenabile bisogno d’amore. Qualcosa di talmente puro e di reale che va oltre i confini dettati dalla sorte. Un amore che cerca addirittura di “normalizzare” la loro condizione presente e di far dimenticare il loro tragico e sanguinolento passato. «Troviamo una casa, un lavoro, come fanno tutti», ovvero cose che per tutti gli altri sembrano normali e che per noi – Lee e Maren – sono invece irraggiungibili.

Bones and All, fino all’osso, allo stremo. In questo lungometraggio Luca Gadagnino, vincitore del Leone d’argento alla regia alla Mostra internazionale del cinema di Venezia, restituisce uno spaccato sociale degli anni Ottanta a stelle e strisce. O, per meglio dire, la sua visione degli Stati Uniti – Maryland, Kentucky, Michigan – di quel periodo, sicuramente influenzata dalle opere cinematografiche, arrivate nelle sale e sugli schermi televisivi, con i road movie, e da ciò che è stato seminato dal grande periodo di rinnovamento chiamato Nuova Hollywood, in particolare Easy Rider (1969, Dennis Hopper).

Ma senza pescare riferimenti filmici e andare all’obbligatoria ricerca di un feticcio o di un’influenza cinematografica, Guadagnino con Bones and All mette in scena una narrazione con un’ambientazione reale ed elementi macabri, per mezzo dell’equilibro tra amore e odio, e tra la sospensione dello spazio e quella del tempo. La linearità delle vicende e del viaggio, con tanto di didascalie dei luoghi, viene interrotta dagli improvvisi flashback di Maren che aiutano la comprensione del suo stato psicologico ed emotivo e che spezzano la piattezza narrativa. Come la scena del pigiama party e quella dell’incontro con la madre, che sono un fulmine a ciel sereno e tengono sempre alta la tensione dello spettatore. Ma non c’è solo questo, perché anche gli spazi per i momenti di riflessione, costituiti dalle registrazioni di Frank ascoltate sul pullman dalla protagonista, dai dialoghi profondi della coppia e dalle inquadrature panoramiche sulla natura incontaminata, acquistano una certa importanza. Inoltre, sono anche presenti dei piacevoli riferimenti letterari, messi a fuoco in alcune inquadrature con dei dettagli delle copertine, come Dubliners di James Joyce (aperto sul tavolo della cucina, nella casa occupata da Sully), Tolkien (Maren lo legge mentre aspetta il bus di notte), The Clan of the Cave Bear di Jean M. Auel e A Short History of Opera di Donald Jay Grout (Maren legge questi due libri in due scene, che sembrano incarnare una rassicurante serenità).

Loro vivono totalmente con i sensi di colpa per quello che sono. […] Hanno il desiderio di fare una rivoluzione dentro sé stessi e di non essere più quella cosa lì. Loro vogliono vincere questa condizione naturale e sperano che nell’incontro tra di loro, questa cosa gli permetta di non essere più ciò (Luca Guadagnino).