Culturificio
pubblicato 8 anni fa in Arte

Canova vivifica il mito di Venere e Adone

Canova vivifica il mito di Venere e Adone

Tu, amore mio, cerca di evitare quelle belve che non offrono le spalle in fuga, ma il petto per combattere, perché il tuo ardimento non sia di danno ad entrambi.

Queste sono, nelle Metamorfosi di Ovidio, le ultime parole che Venere rivolge all’amato Adone prima della sua fatidica morte.
Parliamo di un mito che ha attraversato i secoli, di un amore che è riuscito a sopravvivere alla furia del tempo. Parliamo di una tragedia che è riuscita ad appassionare i più grandi artisti della storia vivendo attraverso le loro opere.
Adone, frutto dell’unione incestuosa tra Mirra e il padre Cinira, re di Cipro, nacque dall’arbusto nel quale la madre era stata trasformata, condannata ad un eterno dolore. Crescendo, il giovane, allevato dalle Naiadi, raggiunse una così rara bellezza che perfino Venere si innamorò di lui. Da sempre la passione di Adone, cresciuto nelle selve, era la caccia e nonostante i continui avvertimenti di Venere, non vi rinunciava. Si narra che la dea cercava in tutti i modi di dissuadere l’amato, di salvarlo dai pericoli, di difenderlo dall’attacco delle belve. Ma il suo amore non bastò; come profetizzato dalla dea fu proprio un cinghiale, durante una battuta di caccia, ad azzannare e uccidere il giovane.
Certamente, una delle più belle opere d’arte ispirata al mito è il gruppo statuario Venere e Adone, realizzato da Antonio Canova tra il 1789 e il 1794. Nella scultura è colto il congedo, che si rivelerà poi essere l’addio, di Adone che incurante degli ennesimi avvertimenti della dea, decide di partire per una battuta di caccia. Il giovane tiene infatti in mano il dardo con cui colpirà il cinghiale e ai suoi piedi, in posizione di attesa, troviamo il suo fedele cane da caccia. Nel gruppo è Adone la figura dominante, più alto della dea, che assume quasi il ruolo di una colonna a cui lei si appoggia mentre gli accarezza dolcemente il viso con amore e protezione. Lui ne cinge delicatamente il fianco, ma il suo corpo è proteso verso l’esterno, sembra prendere le distanze e il suo sguardo malinconico anticipa il suo triste destino. Naturalmente, il momento scelto dall’artista non è il momento di massimo pathos del racconto, ma quello che lo anticipa. Questa scelta deriva dall’adesione di Canova al Neoclassicismo con il quale si diffuse il desiderio di un ritorno all’antico. In opposizione allo sfarzo e alla teatralità propria del Rococò e del Barocco in voga in quel periodo, viene riscoperta quella “nobile semplicità e quieta grandezza” propria appunto delle opere classiche. Una scultura Neoclassica quindi non avrebbe mai dovuto mostrare intense passioni o l’apice della tragedia; l’artista avrebbe dovuto scegliere tra il momento precedente o quello successivo, nei quali manca quell’esplosione della tensione che avrebbe sopraffatto l’equilibrio della composizione.
In linea con tali principi nell’opera di Canova tutto è dominato da armonia e rigore. Una bellezza idealizzata permea i due corpi. Tutto è perfetto, sospeso, eterno. Il marmo è plastico, i corpi sembrano prendere vita.
Se osserviamo il retro, l’idealizzazione e il rigore lasciano spazio ad una dimensione più sensuale e passionale. La maestria di Canova è comunque confermata, l’intreccio delle braccia, la fluidità del movimento, la sinuosità delle forme, donano ai corpi un effetto ancora più realistico tanto che le mani dell’uno sembrano affondare nelle carni vive dell’altro.
Intuiamo che la statua è frutto di un meticoloso iter di lavoro che giunge a rendere quasi trasparente la superficie marmorea e la levigatura meticolosa unita all’effetto della cera rosata spalmata, sembra trasformare la pietra in corpo reale. Solo il pelo del cane rimane ruvido, accentuando la perfezione dei due corpi e aumentando il loro isolamento, ma allo stesso tempo la loro unità.
L’opera ebbe così grande successo che il committente, il marchese napoletano Francesco Berio, costruì un tempietto nella sua reggia partenopea solo per ospitarla. Alla morte del marchese l’opera fu acquistata, su suggerimento dello stesso Canova, dal colonnello Guillaume Favre che la trasportò in Svizzera. Per questo oggi la statua si trova a Ginevra presso il Musée d’Art et d’Histoire.
Nella Gipsoteca di Possagno (TV) però è conservata la copia in gesso, riproduzione del modellino iniziale di terracotta. Le opere di Canova infatti sono il risultato di decine di bozzetti che venivano trasformati in calchi di gesso tridimensionali nei quali erano inseriti dei particolari chiodini in metallo chiamati repère che, attraverso l’utilizzo di uno speciale compasso chiamato pantografo, servivano a trasferire nel marmo le esatte proporzioni dell’opera in gesso. Meticoloso lavoratore, a Canova bisogna riconoscere moltissimi meriti. Forse fra tutti uno in particolare: proprio come in Venere e Adone, in tutte le sue opere, egli dimostra la capacità di rendere eterna la parola e la scrittura. E così, come Venere trasformerà il sangue di Adone in fiori di Anemone per tenerne per sempre vivo il ricordo, Canova, per mezzo della sua arte, ha reso indelebile la storia dei due amanti nella memoria degli uomini.

 

Articolo a cura di Dalila Taldo