Culturificio
pubblicato 3 anni fa in Cinema e serie tv

Il posto scomodo

Il posto scomodo

Imagine, an audience of three hundred and none of them knows you’re not acting (The baby of Macon)

Tornando a guardare dopo tanti anni il film del 1993 di Peter Greenaway The baby of Macon, viene da interrogarsi sulle strade che dividono e uniscono cinema e teatro, anche riflettendo sui profondi cambiamenti che ha subito il mondo dell’intrattenimento visivo. Forse oggi più che mai i due media sono lacerati, profondamente divisi ma quasi mai divisivi, avendo perso praticamente la loro potenza politica – piano che stabilisce e si relaziona con il vivere comune – e popolare. Certo, Greenaway non è il solo che negli ultimi trent’anni ha provato a coniugare questi due mondi. Vengono in mente, tra gli altri, Olmi con Cantando dietro i paraventi (2003) e Dogville di Von Trier (2003). Ma nel film del regista gallese sembra esserci un passo in più, o comunque in una direzione diversa, più diretta, che attrae lo spettatore e lo obbliga a prendere parte alla rappresentazione.

Il teatro deve liberarsi dal desiderio di stare sempre dalla parte giusta, deve confrontarsi con la realtà. È il modo più antico di mettersi in rapporto con il mondo, con la percezione che l’uomo ha della realtà.

Era il 1999 quando Ostermeier pronunciò queste parole durante la conferenza per la sua nomina a direttore artistico della Schaubuhne di Berlino. Sembrano essere più di una semplice constatazione; quasi un presentimento, un’insinuazione provocatoria, il pietoso alzare il coperchio di qualcosa che puzza da troppo tempo.

L’impressione è che il teatro sia morto, o almeno morente, e si aggrappi ora al dogma invecchiato della destrutturazione, ora al morboso feticcio dei classici. La potenza innovativa degli anni ’60 e ’‘70 si è appiattita su una rappresentazione estetica e concettuale salottiera, generando un mostro che ha perso ogni sua funzione: catartica e rituale (e quindi giocoforza sociale e popolare), satirica e politica, storica, immaginifica. Anche la sua tendenza all’esplorazione, senza che si inabissi nel facile pantano dello sperimentale, è venuta meno. Ma Ostermeier crede in un teatro del reale, anche sporco, anche ridicolo – un Amleto che sghignazza rotolandosi nella terra –, grottesco fino al terrore.

Tra fine anni ’90 e primi 2000 il rafforzarsi della serialità televisiva ha poi lacerato ancora più a fondo le carni di teatro e cinema. Trovando lentamente i propri strumenti espressivi, ha strappato il primato della narrazione agli altri due media, lasciandoli nudi del loro afflato popolare e comunitario, l’unico che abbia la forza di renderli testimoni dell’epoca.

La serialità nasce con presupposti diversi; la sua vocazione narrativa, esteriorizzata, massificata, lo stesso suo scopo produttivo e riproduttivo che si inserisce perfettamente in un’ottica capitalistica e darwiniana, il tenere col fiato sospeso, l’esasperata visione in terza persona, il supporto televisivo, tutto la rende immediata, facilmente consumabile. In questa sua natura di prodotto, la serialità si offre per una visione distante, in cui il ruolo dello spettatore – principalmente esterno – si sovrappone a quello di consumatore.

Il teatro nasce con intento opposto. Non si consuma, in qualche modo neppure si guarda; il teatro si fonda sulla relazione, sulla mancanza della quarta parete che rimane presente anche nella sua completa assenza. Il teatro è un corpo dove lo spettatore è organo integrante, finale e complementare. È l’intuizione di Grotowski, che vede nel rapporto intimo che si stabilisce tra attore e spettatore la vera forza e unicità del teatro, concezione che lo porterà poi a spogliare la scena da tutti gli imbellettamenti che il cinema aveva fagocitato, abolendo in qualche modo anche l’edificio teatrale stesso. Grotowski muore nel 1999, lo stesso anno della conferenza di Ostermeier a Berlino (e, per una strana cesura storica, lo stesso anno di morte di Sarah Kane).

Essendo corpo e non prodotto il teatro mette in relazione, non viene fruito; la relazione dissolve la facilità consacrando una vicinanza che, proprio per il suo unire più elementi, ha una natura complessa. Ma la complessità è scomoda, anche crudele. Artaud credeva in una resurrezione del teatro che passasse dalla crudeltà, da un coinvolgimento emotivo, fisico e psichico dello spettatore. Arrivare a una partecipazione che non fosse solo estetica o intellettuale, ma una sorta di viaggio alchemico e inconscio che potesse toccare il profondo, sconvolgerlo. In realtà, la stessa ricerca di Ostermeier, pur iscrivendosi in un teatro contestuale, realistico e sociale, appare come un portare sulla scena l’inconsueto, la profonda imprevedibilità delle azioni umane.

Si tratta di trovare se stesso nell’altro. Anche se la nozione di ‘altro’ è oggi minacciata. Quello che cerco di elaborare […] è che il vero momento del teatro non si trova dentro l’individuo, ma nella relazione tra l’individuo e l’altro.

D’altra parte la serialità non ha complessità relazionale. Di contenuto, forse, di narrazione o di personaggi, ma quello che cerca di instillare nello spettatore è una relazione fittizia, dove terrore e crudeltà sono preparati a tavolino, intellettualizzati, dimenticabili nel momento in cui si spegne lo schermo e si torna a osservare il reale. Il fine della serie, anche della più disturbante, è l’agio. Rifuggendo la complessità, rifuggendo l’”altro”, si negano agone ed eros a favore dell’onanistico dogma della comodità. L’agio è il luogo a cui deleghiamo la nostra resa.

Ovviamente ci sono eccezioni anche tra le serie tv. Ne è un esempio Black Mirror (2011-2019); l’autoconclusività di ogni episodio scardina sia la narratività che l’attesa, togliendo allo spettatore lo status di consumatore in attesa di comprare un altro prodotto. Siamo solo uomini davanti a un’inquietudine; il tentativo di metterla in scena, però, a mio avviso cade di tanto in tanto nel grossolano. Nell’episodio Bandersnatch i registi si servono di strumenti del medium videoludico per creare un’illusione di relazione fittizia: per quanto in un certo senso sperimentale, l’episodio ammicca senza coinvolgere. Ma se il videogioco fonda la sua dinamica relazionale sulla libertà di scelta e sull’errore (meraviglioso in questo senso è Undertale, che mischia le carte del linguaggio RPG portando il giocatore a confrontarsi con le conseguenze relazionali e morali delle sue scelte anche metaludiche), nel caso di Bandernastch troviamo invece una serie di narrazioni parallele incastonate in una; più rimando al labirinto borgesiano che tentativo di stabilire una relazione con lo spettatore. Per inciso, è chiaro che anche il videogioco porta in sé la visione borgesiana, ma questa è presupposto, non obiettivo, ed è proprio questo presupposto che dà al giocatore – non consumatore, non spettatore – la possibilità di relazionarsi con il mezzo (e, in caso di gaming online, con l’“altro” virtuale).

Da qui, tornando al discorso iniziale, è evidente come i film citati cerchino, attraverso apparati o strumenti propri del teatro, di mettersi in relazione con chi guarda. È il caso di Olmi, che sembra riesumare nel suo Cantando dietro i paraventi l’aspetto più atavico della scena teatrale, quello rituale e in qualche modo simbolico ed erotico.

Un seminarista sbaglia indirizzo, si ritrova in una casa di piaceri e qui assiste a uno spettacolo. Il filtro sembrerebbe doppio: tra noi e lui, tra lui e la scena che avviene sul palco. Da questo punto di vista, la distanza e l’agio sono massimi. In realtà, però, non vediamo effettivamente la scena che avviene sul palco – se non nei pochi momenti di distacco dal racconto, quando gli attori intervengono sulla scenografia. Quella che vediamo è la scena trasfigurata dagli occhi dello spettatore; lo sforzo del ragazzo di far diventare il teatro mare e gli attori pirati è in realtà il nostro. Ed ecco che la rappresentazione di una cosa genera la cosa stessa, trasfigurando il simbolo sulla scena e tornando poi alla mente attribuendo alla cosa un nuovo significato; è una genesi del film, del cinema e dell’immaginazione stessa, e siamo chiamati a prenderne parte, esserne in qualche modo artefici.

In Dogville Von Trier applica un procedimento inverso. La relazione con lo spettatore pare indirizzarsi verso un’esplicita e violenta esclusione. Il regista danese sembra quasi seguire alla lettera i dettami grotowskiani nel dare centralità assoluta all’attore e crea così un cinema “povero”, con scenografie che sono segni in gesso sul pavimento, una camera traballante, lo stesso cane diventa un disegno stilizzato, nessun muro, nudità di persone, d’orizzonte… ma in questa costruzione non c’è posto per lo spettatore.

La cesura dei capitoli e la voce narrante esterna che segue la vicenda, con la sua narrazione posata che stempera qualsiasi drammaticità, sembrano quasi volerci dire: questo non è il tuo posto. Questa non è la tua storia, non c’entri nulla qui. Ed è quel rifiuto, quella dimensione di incomunicabilità paternalistica ciò che, consapevolmente, sprona lo spettatore ad avvicinarsi alla vicenda, quasi per contrasto. Il buio scarno di un paese senza uscita, il forte simbolismo, la tragedia – morale e narrativa – che si consuma, tutto sembra portare a un’universalità della vicenda che può distruggere intimamente chi guarda. Ma la voce narrante, alla fine, è l’unica via di fuga. Lo spettatore, entrato nel mondo terribile di Von Trier, in cui non c’è identificazione positiva – c’è un Bene, una Grazia, solo nell’idea; ogni cosa, a contatto col reale, diventa meschina, bieca, violenta – può solo cercare riposo, un barlume di agio, nella convinzione che se c’è una voce narrante, c’è anche un fuori: quel mondo non è onnipresente.

In tutti questi esempi, la relazione con chi guarda non è mai continua e assoluta. Complessità e scomodità si alternano, vengono rotte di tanto in tanto seguendo il messaggio che il regista intende sottolineare. Questo porta, in tutti e tre i casi, ad avere una via di fuga. Il nostro agio si può sempre salvare, possiamo spegnere lo schermo e alzarci senza rimanere invischiati nell’estraneità del reale. Ma il teatro, per riprendere le parole di Ostermeier, deve confrontarsi con la realtà. Questo vuol dire stare scomodi: non accettare la salvezza di una fuga o di un mondo fittizio fatto di agio ma lasciarsi intrappolare, sommergere da qualcosa di così vicino da risultare distruttivo. Solo così ci si può relazionare fino in fondo col reale.

È quello che fa Greenaway in The baby of Macon. Ci inganna, per farci toccare più a fondo la carne del reale. L’impostazione teatrale sembra la stessa di Cantando dietro i paraventi, ma il pubblico ci è talmente distante che un’identificazione è impossibile. Ci si presenta un miracolo oscuro, una nascita che ha del divino. L’inganno di una sorella che, per sete di ricchezze e fama, si spaccia per madre vergine. Anche qui, le scene da dietro le quinte si alternano con le scene sul palco, ma queste non arrivano mai a trasfigurarsi cinematograficamente: la scena rimane scena. Il pubblico di nobili in vesti rosse sale e scende dal palco, si alterna e sostituisce agli attori, in un gioco di partecipazione egotistica al miracolo. Cosimo Medici vuole perfino battezzare con il suo stesso nome il bambino, che rimarrà invece innominato per tutta la rappresentazione.

A tratti Greenaway ci fa credere che il film sia una denuncia contro il dogma, la fede cieca, che sfrutta i simboli e dimentica le persone. Ma così non è. La scaramuccia tra fede e scienza non è che un pretesto, come le visioni di persone che si accalcano come branco e offrono somme enormi per gli umori dell’infante miracolato. L’equilibrio di Macon crolla presto dietro le piccolezze umane. I poteri divini – o diabolici? – del bambino portano all’allontanamento della sorella e alla sua sete di vendetta verso la comunità, che culmina nell’omicidio – teatralizzato, tremendamente finto – del proprio fratellino. Ma il dolore del pubblico, di Cosimo Medici, è all’opposto più che reale. Ed è lo stesso Cosimo, davanti a un’impasse legislativa nel momento di decidere la punizione alla ragazza, a consigliare agli attori una scappatoia per punirla (salvo scivolare nell’angusto vicolo dei sensi di colpa subito dopo).

La trama, terribile, dello spettacolo, riesce a proseguire solo grazie al pubblico. E se per un momento credevamo di poterci rivedere in quel pubblico puerile, egocentrico ma mai crudele, ecco che quest’identificazione diventa scomoda. Così come è scomoda qualunque altra: tutti i personaggi, lo stesso bambino-miracolo, portano in sé un germe oscuro, pavido e mostruoso, tremendamente umano, ma proprio per questo inaccettabile. E allora cerchiamo rifugio nel pubblico sulle gradinate, che guarda senza prendere parte agli eventi, che si limita ad applaudire.

Ma, durante la condanna della ragazza, stuprata a morte per tredici volte tredici e aggiungendo ancora tre volte tredici, le parole dei soldati che la tengono ferma su un talamo coperto da tende, hanno un ché di terribile:

Imagine, an audience of three hundred and none of them knows you’re not acting.

Perché a questo punto l’ignoranza del pubblico diventa colpa, il non intervento anche alle grida di orrore della condannata è segno di indifferenza colpevole, complice. Non sembra esistere salvezza, se non nell’agio di uscire dallo schermo e rifugiarci in noi stessi, nella nostra realtà rassicurante. Ma, a differenza di Von Trier, Greenaway fa un passo in più. In chiusura, compiuta la tragedia, gli attori non salutano il pubblico sulle gradinate, ma arrivano davanti alla quarta parete e s’inchinano a noi.

Presi in causa, non possiamo fare finta di niente; anche il divano di casa diventa sedia d’imputato, l’agio irraggiungibile. Colpa e responsabilità investono ogni cosa, ogni piano. In questa tragedia che viviamo ogni giorno non c’è posto che non sia scomodo.

Attraverso una realtà grottesca, stremata, portata all’eccesso, di sapore ostermeieriano, Greenaway si spinge a una profonda tortura dello spettatore, eco di quella crudeltà che per Artaud era il segno autentico del teatro. Se la necessità di accettare la parte più deteriore di noi stessi è il messaggio portato da un’infinità di opere, non c’è modo più convincente per comprenderlo, farlo nostro, che forzarci ad aprire gli occhi sul posto scomodo che da sempre occupiamo.

di Cosimo Monari