Alessandro Foggetti
pubblicato 2 anni fa in Cinema e serie tv

“Il potere del cane” (“The Power of the Dog”, 2021) di Jane Campion

“Il potere del cane” (“The Power of the Dog”, 2021) di Jane Campion

When my father passed, I wanted nothing more than my mother’s happiness. For what kind of man would I be if I did not help my mother? If I did not save her? (Peter Gordon).

Inizia con queste nebulose parole Il potere del cane (The Power of the Dog, 2021, disponibile su Netflix) di Jane Campion, film tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Savage (1967). Con i titoli di testa sullo schermo e la musica incalzante in sottofondo, queste parole, così fulminanti e apparentemente innocue, celano un messaggio capitale di questo lungometraggio.

Montana, 1925. I fratelli Burbank, Phil (Benedict Cumberbatch) e George (Jesse Plemons), sono i ricchi proprietari di un ranch. Dopo la cena in una tipica locanda, il gentile George si innamora della proprietaria Rose (Kirsten Dunst). Dopo un breve periodo, fatto di continue avances da parte di George, decidono di sposarsi e Rose si trasferisce con l’introverso figlio Peter (Kodi Smit-McPhee), nella proprietà dei fratelli Burbank. La convivenza di George e Rose con il burbero Phil, complicata dall’arrivo di Peter, è ciò su cui ruota l’intera narrazione.

Una trama così lineare e pulita non sembra lasciare molto spazio a particolari sottolineature, ma la capacità della regista di lavorare sui campi lunghi, sulla tensione tra i personaggi e sulla suspense, costantemente e abilmente sottolineata dalla musica in sottofondo, trasforma gli elementi che la costituiscono in un finissimo equilibrio filmico, tra le scelte stilistiche e l’intensa formazione psicologica dei personaggi. Ma andiamo per ordine.

La trama è divisa in cinque atti. Ogni atto racchiude al suo interno almeno un avvenimento chiave, utile per comprendere l’opera in tutta la sua complessità. Questa segmentazione è proprio uno dei primi aspetti da sottolineare, proprio perché non fa altro che alimentare  alimenta la suspense nello spettatore e accresce l’immedesimazione: produce infatti degli stacchi temporali, ambientali e di natura caratteriale nei protagonisti e delimita confini tra i diversi accadimenti. Pause riflessive che spezzano il corso degli eventi.

Per analizzare in profondità la pellicola, bisogna partire da due personaggi: i fratelli Phil e George Burbank. Questi rappresentano e incarnano due poli opposti, apparentemente inavvicinabili: Phil è  lo zoticone (o meglio, almeno in apparenza, si scoprirà solo successivamente la sua laurea), George il gentiluomo; uno è burbero e maleducato, l’altro gentile e sensibile; uno suona uno strumento l’altro preferisce solo ascoltarlo, uno guida l’automobile e l’altro si muove in sella a un cavallo; uno si veste sempre in modo elegante e l’altro indossa, tendenzialmente, pellicce di animali – un sottile richiamo allo stato animalesco del personaggio e al suo rapporto con gli animali e la natura che lo circonda.

D’altronde, proprio riguardo quest’ultimo elemento, Phil sembra incarnare il collante tra gli animali e l’uomo, tra la natura incontaminata e la civilizzazione: non si lava, indossa dei copripantaloni in montone e si cosparge di fango prima di fare il bagno nel fiume. Il passato e il presente, l’antichità e la modernità. Phil e Gorge sono una moneta Burbank, con due opposte facce; talmente distanti che a volte sembrano non aver condiviso neanche il passato: durante i racconti di Phil, George sembra aver rimosso ogni cosa.

In questa solida e visibile contrapposizione, l’arrivo di Rose e di suo figlio infiamma questo lacerante rapporto, facendo emergere il rancore di Phil e i suoi sofferti legami degli anni precedenti, come quello con il suo defunto amico, mentore e amante Bronco Henry. La macchina da presa mette più volte a fuoco dettagli e oggetti che cercano di ricostruire la vita e le gesta di Bronco, soprattutto ciò che ha lasciato nell’animo di Phil.

In questo clima fatto di ricordi malinconici e misteriosi, il palcoscenico su cui si muovono i personaggi sembra galleggiare tra il thriller e il genere drammatico, dove il rapporto (o meglio, una guerra psicologica) tra Phil e Rose si fa sempre più teso e l’aggiunta della variabile Peter, che arriva al ranch in una pausa dagli studi, influenza ed evolve in modo netto questa situazione familiare.

Per mettere in scena questo atipico film western che sembra abbracciare il noir, le scelte registiche di Jane Campion si focalizzano specialmente sui campi lunghi e sull’aiuto della musica di sottofondo. Alcune inquadrature strizzano l’occhio alla pellicola Sentieri selvaggi (1956) di John Ford e il rapporto tra uomo, animale e natura appare influenzato dalla visione narrativa presente nei lavori della formidabile regista Kelly Reichardt. Nello specifico, un altro dettaglio da sottolineare è il contrasto visivo e l’unione caratteriale dei personaggi attraverso le inquadrature. In una delle scene iniziali del film i Burbank cenano nella locanda di Rose: Peter, offeso dalle insinuazioni di Phil, decide di andare sul retro dell’edificio e fa roteare l’hula-hoop per tranquillizzarsi. Stacco, i membri della tavolata si alzano, George è ancora seduto a capotavola e Phil, prima di parlare, è in piedi e sta facendo roteare una sedia in ferro battuto. Una sorta di segno premonitore che allude in anticipo alla successiva vicinanza tra Phil e Peter.

Un’altra scena suggestiva, che spacca la narrazione in un punto di non ritorno, è quella in cui Rose, nel soggiorno a piano terra, cerca di fare pratica con il suo nuovo pianoforte (regalato da George) e Phil al primo piano dalla sua camera da letto, replica e migliora le melodie con il suo banjo. Un duello tra strumenti, dal basso verso l’alto e nuovamente dall’alto verso il basso che amplifica la tensione tra i due personaggi e che verrà successivamente ripetuta, per infierire, con un fastidioso fischiettio da parte di Phil: un punzecchiare crudele, infimo e ostile che porterà all’iniziale sconfitta di Rose. Un gioco di suspense e tensione che costruisce le fondamenta di tutta la narrazione e fornisce continui quesiti allo spettatore che non vede l’ora di proseguire il racconto.

Il potere del cane è questo. Una storia familiare nel selvaggio West del 1925, che mette in contrapposizione l’amore, la fratellanza e l’amicizia in una parabola tra la vita e la morte, tra l’uomo e l’animale – proprio uno specifico aspetto di quest’ultimo diventerà il protagonista principale della conclusione narrativa. Le interpretazioni di Benedict Cumberbatch e Kirsten Dunst hanno sicuramente collaborato a centrare l’obiettivo stilistico e rappresentativo di Jane Campion: con dodici candidature all’Oscar e il premio per la miglior regia, questa pellicola restituisce una storia contemporanea situata in un mondo arcaico, composta da suggestioni cinematografiche, dettagli visivi e campi lunghi sulle valli incontaminate. Dove nulla è ciò che sembra davvero. Forse, neanche un’ombra su una collina.