Jenny Bertoldo
pubblicato 4 anni fa in Recensioni

“Lasci la stanza com’è”

di Amilcar Bettega

“Lasci la stanza com’è”

Amilcar Bettega, scrittore brasiliano contemporaneo, ci accompagna, attraverso i racconti della sua  raccolta Lasci la stanza com’è, in un immaginario onirico e surreale. Sebbene molte trame si svolgano in uno scenario ordinario, l’elemento fantastico irrompe spesso stravolgendo gli equilibri dei protagonisti. È il caso dei due racconti Il coccodrillo I e Il coccodrillo II, nei quali il protagonista non si libererà più del suo “coccodrillo sulla schiena”, aprendo al lettore molteplici metaforiche chiavi di lettura. Attraverso l’elemento surreale Bettega permette un’analisi della realtà dai toni ironici e talvolta anche amari e malinconici. I protagonisti dei racconti rivelano un dolore spesso muto, nascosto, ma altrettanto profondo, che si manifesta solo nel momento in cui le situazioni sembrano piegarsi verso l’assurdo, come nel racconto La visita in cui il protagonista, messo alle strette, scoprirà dentro di sè una violenza antica e iraconda. O ancora, nel racconto Apprendistato, dove il protagonista mescola crudezza, disinteresse e talvolta pure gratuita violenza ad immagini delicate, come l’osservazione della donna con cui si trova in camera, i ricordi della madre e dei suoi gesti e una minuta osservazione del mondo circostante, rivelando alla fine un’incapacità di adattamento e di vera armonia con la realtà che risuona nella frase, apparentemente semplice quanto nostalgica, che “certe cose non le impari mai”. L’ambiente stesso si anima e si fa cassa di risonanza dell’interiorità dei personaggi: città che spariscono o da cui sembra non si possa mai andarsene costringono queste donne e questi uomini a ridimensionare se stessi, i loro desideri e le loro frustrazioni. I luoghi descritti da Bettega sono dei non-luoghi, dove il tempo sembra annullarsi in una serie di gesti e situazioni ripetuti che ad una minima variazione sembrano stravolgere tutto il circostante. Sono luoghi privi di definizione alcuna, dipinti solo in brevi tratti essenziali ma sufficienti a farcene cogliere lo spirito. Il silenzio, l’immobilità, diventano lo sfondo per eventi impercettibili, intimi, ma le cui conseguenze sembrano amplificate, come in Autoritratto, il cui scenario è una casa vista dall’alto tanto statica che i suoi abitanti paiono delle statue ed un loro minimo gesto, uno sguardo, assume un’importanza tale da scatenare tutta l’azione. Alcuni racconti si chiudono con un vago senso di nostalgia, come in Esilio, in cui il protagonista sembra essere imprigionato in una quotidianità vuota e desolata e dalla quale sembra non esservi via d’uscita perché “la città non finisce mai”, quasi a diventare più una condizione interiore che una situazione esterna. Ma il suo protagonista non si immerge nella commiserazione. Vive questo non-tempo come una condizione naturale, oltre la quale egli stesso sembra incapace di ridimensionarsi. E così accade anche al protagonista del racconto Per salvare Beth, il quale allontanato dall’unica certezza delle sue giornate, il suo incarico lavorativo, si piega a toni patetici e grotteschi. I personaggi di Bettega danno voce alla propria interiorità senza filtri né finzioni. Sono perciò personaggi estremamente umani pur nella loro follia o ruvidezza apparente. L’autore ne presenta la psicologia con una finezza tale da giustificare qualsiasi gesto seppur apparentemente estremo. È il caso dei due racconti Ereditario e Il volto, le cui trame si ascrivono totalmente nella dimensione dell’assurdo e dell’onirico, e tuttavia in questa suggestione circostante i personaggi sono sempre mossi da sentimenti profondamente umani quali la pietà, l’imbarazzo, lo smarrimento. Lo stile di Bettega, conciso, diretto, talvolta quasi ruvido, composto prevalentemente da frasi brevi, spezzate, riesce comunque, grazie a una ricercata precisione lessicale, ad ottenere un ritmo trasognato e trasportante, creando quella suspence e quel climax imperante che tengono il lettore incollato alla storia. Talvolta i personaggi si concedono sfoghi totali, apparenti flussi di coscienza, per esprimere sensazioni inenarrabili e ritmi concitati dell’azione come in Insistenza e in Corsa, nei quali gli eventi sembrano travolgere e quasi soffocare i personaggi, in un crescendo di velocità e tensione.

Un tono più lento, cadenzato, quasi solenne, caratterizza invece il racconto La cura, che si snoda in uno scenario quasi apocalittico, dove una peste generale colpisce e cancella qualunque opera umana. E questa malattia devastante altro non è che l’inerzia. Cosa accadrebbe se domani nessuno avesse più le forze di muovere un dito, pur rimanendo sano, lucido, e ogni singola cosa fosse lasciata al suo destino? Ce lo mostra l’autore, dipingendo questa “città relitto”, dove l’unica forza umana perpetuante è la speranza. Una speranza cieca, abbandonata, religiosa, che si concretizza nell’immagine di chiusura del racconto, dai temi quasi biblici: i dottori visti come profeti, portatori assoluti di salvezza, unica fonte di fiducia per i malati di inerzia che non vivono che di speranza. Attraverso i quattordici racconti che compongono la raccolta l’autore indaga l’uomo contemporaneo e le sue relazioni con il circostante e l’altro lasciando parlare i sogni, l’inconscio, l’intimità più profonda di ciascuno, spaziando tra mondi reali e immaginati, o ai confini fra i due, ristabilendo un nesso implicito fra sogno e realtà, fra il vissuto e il pensato, facendo affiorare sentimenti e vibrazioni intime in maniera tanto precisa da metterci a nudo. E ci riesce così bene perché l’inconscio, la nostra parte irrazionale, parla il linguaggio dei sogni. Parla il linguaggio dei personaggi di Lasci la stanza com’è.


Qualche domanda al traduttore Daniele Petruccioli

L’atmosfera onirica presente nei racconti è legata ad una tradizione orale o collettiva sudamericana?

Certo il fantastico è un genere importantissimo in moltissima letteratura sudamericana – basti pensare a Cortázar, a cui la scrittura di Bettega è stata spesso accostata, o ancora di più agli uruguaiani Felisberto Hernández e Mario Levrero, cui l’autore stesso dice di sentirsi più vicino – ma non è certamente qualcosa che nasce da una tradizione orale né collettiva. L’immenso successo del cosiddetto “realismo magico” (da Garcia Marquez a una certa Allende) ha forse fatto sì che noi lettori europei ci adagiassimo un po’ in un’idea di letteratura sudamericana onirica e iperreale, ma in quel continente (soprattutto negli ultimi anni) c’è molto di più. La letteratura sudamericana (e brasiliana) delle ultime generazioni è molto più crudamente politica e realistica, oppure, per converso, particolarmente intimista e psicanalitica. Sicuramente, tutta, si muove all’interno di una grande ricerca stilistica e di linguaggio. Purtroppo questa letteratura è ancora pochissimo tradotta da noi, perché si tende a cercare “il nuovo Jorge Amado”, invece di andare a scoprire cosa fanno i giovani scrittori sudamericani – e soprattutto brasiliani – contemporanei, che questa tradizione l’hanno superata già da un po’.

Vi sono dei riferimenti alla letteratura di lingua portoghese che ti verrebbero in mente nel leggere Lasci la stanza com’è?

Non secondo l’autore, che si dichiara affine soprattutto a uno scrittore come Kafka. Se riferimenti esistono, sono forse più legati a quello sperimentalismo linguistico di cui parlavo prima, che in Portogallo si rispecchia in voci molto diverse quanto a tematiche ma tutte tese in una ricerca stilistica forte (penso per esempio a Dulce Maria Cardoso, Valério Romão o Afonso Cruz) e in Brasile si coagula intorno a voci molto contemporanee come quelle di Antônio Xerxenesky, Joca Terron o Altair Martins. Nell’Africa lusofona si potrebbe pensare a un certo spiritismo molto metropolitano di certi scritti di Ondjaki. Ma in realtà penso che Bettega sia abbastanza diverso da tutti questi scrittori, legandosi più a uno sperimentalismo surrealista direi quasi mitteleuropeo (di nuovo Kafka, che si impone in modo quasi pressante). Non a caso si tratta di uno scrittore molto cosmopolita, cresciuto nel Rio Grande do Sul ma che ha vissuto per anni a Parigi e a Pechino – scrivendo peraltro un romanzo ambientato a Istanbul, dove anche è stato per diversi mesi.

Le peculiarità dello stile narrativo di Bettega sono da attribuirsi alle strutture sintattico-linguistiche del portoghese o piuttosto a una precisa scelta stilistica dell’autore?

Le particolarità morfosintattiche molto elastiche del portoghese in questo caso non c’entrano. Bettega non destruttura la lingua in modo giocoso o postcoloniale come diversi scrittori delle generazioni precedenti e non solo, africani (Mia Couto, ma soprattutto Luandino Vieira) o brasiliani  (dalla lezione fondamentale di Guimarães Rosa al più recente meticciato linguistico di un Luiz Ruffato). Per Bettega, la pluralità stilistica e la molteplicità delle voci è forse più una questione di disperazione: ovunque ci voltiamo, l’insensatezza ci sommerge. Questo è un fatto che si riflette sia nelle situazioni, nelle trame, che nella gamma dei registri e degli stili. La difficoltà per me come traduttore è stata soprattutto questa. Di solito si cerca una voce per un autore, o perlomeno per un romanzo intero. Con Bettega, invece, ho dovuto inventare una lingua per ogni racconto. E devo dire che leggere la tua recensione mi ha fatto molto piacere, perché se ci hai letto le cose che dici vuol dire che tutto sommato sono stato bravo.