Culturificio
pubblicato 2 anni fa in Di parola in parola

Linguaggio – Elena Pigozzi

ovvero l’idioma che traccia i confini dell’universo individuale

Linguaggio – Elena Pigozzi

La scrittrice Elena Pigozzi ci parla di “linguaggio”, che per lei è ossessione sonora, scrigno favoloso e oracolo rivelatore


Parola difficile forse, in quanto complesso oggetto di studi, personalissima ossessione che accompagna la mia storia di lettrice, prima che di scrittrice, è la parola “linguaggio”, per me oracolo dei racconti che amo e che consegno.

Il linguaggio a cui mi riferisco è quello che il linguista de Saussure definì “parole”, cioè l’atto del singolo che sceglie concretamente le parole, elabora il proprio idioma e restituisce il suo lessico, o meglio ancora il suo mondo, i cui limiti, insegna il filosofo Wittgenstein, ne tracciano i confini.

Il linguaggio per me è soprattutto suono, quindi orecchio. Ascoltare voce e suono significa entrare nelle stanze dell’altro, facendo attenzione al passo necessario nell’attraversare territori fragili e al contempo preziosi, perciò si traduce nell’osservare e ascoltare con l’occhio del viaggiatore che di fronte al mare sospira perché immagina le innumerevoli storie che custodisce l’orizzonte.

Il linguaggio è il mio scrigno delle favole, che trabocca di pepite d’oro, ma che ho imparato a maneggiare con cura e fare risuonare dentro di me, finché si spalanca l’immagine e le pepite mi restituiscono il loro legame con il mondo, la forza stupefacente grazie alla quale vibrano e a cui rimandano nelle diverse stratificazioni di senso.

Ascoltare il linguaggio dell’altro è un’attività che ho praticato sin da piccola, quando non tenevo un diario, ma un quadernetto delle parole sconosciute che per me divenivano magiche, quanto l’abracadabra del mago, quell’avrah ka dabra dell’aramaico, conosciuto da adulta, che si traduce in “creo mentre dico” oanche “creo quel che dico”.

Da bambina su una rubrica del telefono con le lettere dell’alfabeto bene in ordine annottavo i vocaboli che mi incantavano per via dei loro suoni, al mio orecchio esotici e fascinosi. Sulla stessa paginaregistravo asfodelo e arzigogolato e pronunciati insieme mi dipingevano prati di fiori bianchi affiancati da tortuosi e rumorosi corsi d’acqua. Invece ghirigoro si animava di linee curve e pinnacoli per svelarmi la dimora di Alì Babà e condurmi nelle stanze segrete del Saladino. Transustanziazione lo scrivevo con timore e con altrettanto timore tentavo di pronunciarlo: era una di quelle parole troppo faticose alle labbra tanto che il suono risultava sempre rotto e smorzato dai denti. Simile sorte per parusia, che ingoiavo in un gorgoglio di gola e voltavo pagina per scovare altre pepite.

L’ascolto del suono linguistico, prima che la comprensione del suo senso, è ancora la mia attività privilegiata. Ascolto con stupore e incanto gli insegnamenti sempre disattesi e remoti, ma vitalissimi, del linguaggio, che è una fonte inestinguibile e insieme misteriosa, e solo l’attenzione profonda aiuta a coglierne la millenaria sapienza. O meglio, quel legame con il mondo di cui dicevo all’inizio.

Mi scopro così ancora oggi, mentre scrivo, a inseguire un linguaggio che è prima ed essenzialmente musica e, grazie alla sua musica che risuona dentro di me, mi orienta nella struttura della frase, per aiutarmi in seguito nella composizione delle storie.

Saussure parlava di significante, l’aspetto sonoro del segno linguistico che trasforma le parole in note, ma nella sua teoria escludeva un nesso con il significato, che invece ritengo essenziale nella genesi delle parole. Il linguaggio rimanda al mondo e dal mondo, in cui l’uomo primitivo era immerso, la parola nasceva quale legame con l’oggetto a cui si riferiva. La separazione, semmai, è avvenuta nei secoli, quando il linguaggio perdeva la carica magica per divenire astratto, trasformando in concetti quelle che erano realtà manifeste.

Nei miei romanzi il linguaggio è prima di tutto ricerca di suono, più forte del senso, anzi capace di trascinare il senso, come spesso lavora il linguaggio poetico che attribuisce all’onomatopea e alla sinestesia la funzione generatrice del verso. Illuminante per me la lettura della linguista Bordelois a proposito del senso del linguaggio in generale e delle parole nello specifico. “Quando parliamo di senso delle parole – scrive – non sospettiamo fino a che punto derivino dai nostri sensi e provengano da sensazioni primitive.”

Onomatopea e sinestesia sono mia bussola e timone per restituire una scrittura capace di dare voce ai sentimenti, a quel sentire che, sempre la poesia mi insegna con Elliot prima e Montale poi, è un’esperienza dei sensi, individuale e personalissima, per questo va sollecitata fornendo gli ingredienti, gli oggetti, le cose, il mondo che li risveglia, cioè il correlativo oggettivo.

Quand’ero studentessa universitaria mi imbattei in un saggio del latinista Alfonso Traina, Forma e suono, nel quale sosteneva che molte espressioni latine e in parallelo anche italiane nascono prima per attrazione fonetica, come se il suono attraesse forme e costrutti, creando in seguito forme semantiche autonome. In pratica è il suono, il significante, a dare il senso, come si rileva nei giochi di parole, o nei proverbi. E mi piace pensare che l’attrazione conservi la forza nascosta degli incantesimi.

Per me scrivere è lasciarmi condurre dal potere magico dei suoni che il linguaggio custodisce e ad esso mi abbandono, facendomi guidare dal flusso sonoro di sillabe e accenti. Sono la prima a subire l’incanto dell’abracadabra, pronta a esplorare nuove sonorità e nuovi mondi. Il mio quadernetto delle parole prodigiose è sempre con me. Con gli anni si è fatto glossario degli autori che ho amato, che a volte mi diverto a sfogliare e leggere di seguito, convinta di catturare l’armonica essenza della loro poetica. Di sicuro il loro mondo.


da L’ultima ricamatrice, Piemme 2020

Un mattino lo vidi arrivare. La camicia azzurra, i pantaloni neri, le scarpe imbiancate dai sassi della strada. Suonò alla porta di casa. Ho bisogno di un vestito, disse, guardando Clelia in viso.

Lei sapeva chi fosse e lo fece entrare. Io ero seduta che ricamavo un telo di lino. Clelia guardò Felice, guardò me e con lo sguardo mi disse che aveva capito.

Che c’è un linguaggio muto, che si ascolta con gli occhi e con la pelle. Un linguaggio che grida ma che non trova frasi per farsi suono. Lì sentivo i profumi dei fichi e dei bignè al cacao. Lì scoprivo un mondo che non aveva ancora visto la luce, ma che era mio. Il muoversi del sangue a incrociare lo sguardo del maestro. L’agitarsi del battito ascoltando la sua voce. Il pulsare della carne. Il martellare del cuore nelle tempie.

C’è un dentro che è magma che cresce e che si agita, ma a cui non si danno parole per aiutarlo a uscire, come il bimbo dal ventre. Materia oscura che bisogna dipanare. Lana da filare. Da tirare il filo sul rocchetto e stendere sulla ruota. Quindi avvolgere nella spola e farne arazzo.


Elena Pigozzi è scrittrice, giornalista e insegnante.

Ha pubblicato per Piemme il romanzo La signora dell’acqua (2022) e L’ultima ricamatrice (2020 – Premio Pavoncella per la creatività femminile 2021), mentre per Marsilio Uragano d’estate (2009 – Premio Penne Opera Prima 2009), per Giunti il saggio La letteratura al femminile (1998) e diversi libri di umorismo, tra cui Come difendersi dai Milanesi, Come difendersi dai Romani, Come difendersi dai Napoletani. Per il teatro ha scritto il monologo Dalla parte di lei (2008), tratto da Ovidio.

È dottore di ricerca in Linguistica applicata e Linguaggi della comunicazione e diplomata alla scuola di specializzazione in Comunicazioni sociali dell’Università Cattolica di Milano.

Per l’IRCCS Ospedale “Sacro Cuore – don Calabria” di Negrar di Valpolicella (VR) tiene laboratori di Medicina narrativa, “Storie che curano”.


Di parola in parola è una rubrica a cura di Emanuela Monti. Dalla nota introduttiva è possibile scaricare l’archivio della rubrica, uscita fino al 2019 in forma cartacea nella rivista «Qui Libri».