Negroland: la terra di mezzo
A partire dal melting pot statunitense si sono sviluppate entità culturalmente più o meno definite, racchiuse talvolta in particolari aree urbane: è il caso della Harlem degli anni ’90 o della Chinatown degli anni ’10, le quali costituiscono soltanto un piccolo tratto, una lieve sfumatura – sebbene la più nota al grande pubblico – del multiculturalismo a stelle e strisce. Un multiculturalismo costruito su fondamenta dalle tinte fosche (o molto chiare, come nel caso del KKK) e nel quale si confondono esperienze, culture e razze da cui prendono le mosse contesti sociali che sfuggono ad una rigida categorizzazione. È questo il caso di Negroland, scenario nonché oggetto privilegiato della disamina memorialista di Margo Jefferson, ex critica del New York Times.
Per chiarire cosa rappresenti Negroland per l’autrice e più in generale per gli Stati Uniti è necessario prendere in prestito un’espressione con la quale Margo Jefferson scandisce le prime pagine del suo libro:
Negroland è il nome che ho assegnato a una piccola regione dell’America Negra i cui abitanti erano protetti da un certo grado di benessere e privilegi.
Una definizione, dunque, che racchiude un significato tanto geografico quanto socio-culturale: Negroland è sì un’area geografica ben determinata (il quartiere di Chicago dove abitava l’autrice e, complessivamente, gli agglomerati delle restanti metropoli americane nei quali era concesso di risiedere ai neri economicamente benestanti) quanto un milieu nel quale si fondono valori di varia provenienza. Negroland, infatti, accoglie ipso facto un’élite che ha ben poca attinenza con le Pantere Nere, Carmichael, Selma e tutto quello che ne consegue: qui non c’è bisogno di lottare per i diritti, perché buona parte di questi sono già garantiti.
L’emarginazione e il disprezzo razziale sono del tutto estranei (almeno esteriormente) agli abitanti di questo quartiere: la stessa Margo, esponente dell’alta borghesia di colore, riceve un’educazione scolastica di particolare rilievo: è proprio lei a raccontarci che “i nostri genitori vollero mandarci in scuole private di prima categoria”, in particolare la Lab, fondata dal filosofo John Dewey nel 1896. Accanto all’importanza dell’istruzione si affianca quella attribuita all’aspetto esteriore: interi capitoli del memoir indugiano sul vestiario e sull’attenzione riposta nella cura dei capelli, i quali non avrebbero dovuto in alcun modo essere afro.
L’elemento che emerge prepotentemente dalle pagine di Margo Jefferson non è il Black Power, non è un incontenibile orgoglio razziale, non è nemmeno l’odio nei confronti dei bianchi (che pure potrebbe e dovrebbe popolare una narrazione del genere) quanto piuttosto un’infinita e, soprattutto, indefinita ricerca della propria identità: un percorso che non può prescindere da una constatazione, quella di trovarsi in una terra di mezzo, una landa desolata e sperduta che congiunge l’essere bianco con l’essere nero. Due concetti che, nella cultura e nella società americana, possono sopravvivere soltanto in antitesi. Ma non a Negroland.
Negroland vive attorno ad un’ibridazione tra questi mondi, quella che può essere sintetizzata nell’espressione delle libertà di un nero alto-borghese:
libero al Nord di mobilitarti contro la schiavitù e per il diritto di voto e contemporaneamente di escludere dal tuo circolo sociale i Negri che hanno avuto minor fortuna.
Libero al Sud di esercitare pressioni in favore dei tuoi diritti fluttuanti e allo stesso tempo di ignorare saggiamente le richieste dei Negri liberi più poveri e dalla pelle più scura.
È in questa apparente contraddizione che si risolve l’esistenza di Negroland, un ecosistema in cui possono convivere una copia di Ebony e una commedia di Shakespeare, in cui coesistono Audrey Hepburn e Dorothy Dandridge. Un mondo i cui concetti centrali sono tre: classe, genere e razza. Una tripartizione che si riverbera sull’interiorità dell’autrice, che nel corso del memoir snocciola pagina dopo pagina la lotta interiore e il disorientamento nei confronti del mondo che la circonda; una lotta caratterizzata dall’estraneità rispetto alla comunità afroamericana tradizionalmente intesa, e dal senso di appartenenza ad un’élite che guarda più esplicitamente verso la borghesia bianca.
D’altronde, come afferma Margo Jefferson nelle ultime pagine del memoir,
eravamo ancora separati, ma “separati e contemporaneamente uguali” era sempre stato il motto de facto di Negroland. Naturalmente non eravamo del tutto uguali. Il mondo bianco era ricorso a leggi che ci escludevano; adesso, ritenendolo conveniente, le cambiò così da includere pochi di noi.
Negroland, la terra di mezzo per eccellenza.
L’immagine in evidenza proviene da: http://the-talks.com/interview/margo-jefferson/