Culturificio
pubblicato 3 settimane fa in Recensioni

“Popoff” di Graziano Gala

o la ricerca dell’origine

“Popoff” di Graziano Gala

Un bambino bussa in piena notte alla porta del vecchio Cimino, in un paese senza nome, e con una lingua rotta e assurda chiede una sola cosa:

Mi scu-ci ci-niò-re, à visto pe-ccaso mio pa-ttre?.

L’ultimo romanzo di Graziano Gala, pubblicato da minimum fax (esordio con Sangue di Giuda, 2021,sempre per minimum) è tutto in questa frase. Popoff, così verrà poi chiamato il bambino, troverà in Cimino, nel fornaio Cisti e nel prete Don Ato degli alleati che lo aiuteranno nella ricerca del padre e, a un certo punto, della madre.

Non sono però le figure positive a prevalere nella narrazione: il paese è abitato da presenze poco raccomandabili e dai nomi improbabili come Poliure Tano, Occhipesce, CrociAto. In questo strano microcosmo tutto è fuori posto, ogni cosa è svuotata della propria funzione: il prete per esempio fa colazione con vino e ostie e parla un latino che non è un latino – con i suoi maccheronici Dubiosus, Intrat, Bugiardus – in una chiesa priva di acqua santa.

Il paese più che come luogo aperto viene descritto come un posto chiuso e buio, sempre più umido, quasi fosse un organismo a sé, la pancia della balena di Collodi. La piazza non è il luogo della socialità, ma dello scontro e dell’infamia: qui compaiono delle scritte misteriose contro alcuni abitanti, a cui tutti, al netto dell’analfabetismo, credono ciecamente.

I nomi dei personaggi sono parlanti e ambiguamente composti. È il caso del cattivissimo Poliure Tano, chiamato alternativamente la Polio, Tano, Poliure. Come avviene per il protagonista del romanzo d’esordio, anche tra queste pagine Gala riprende la tradizione dello ‘ngiuru salentino e di molti paesi di provincia, ovvero quei soprannomi assegnati dalla comunità ai vari membri che rappresentavano un segno di riconoscimento, un marchio. Il termine ‘ngiuru ha però una forte assonanza con “ingiuria”: quasi come se il riconoscimento dell’identità da parte degli altri fosse in realtà una calunnia. Il nome ha qui qualcosa di mitico, non rivela l’essenza della persona che indica, ma piuttosto rappresenta un fraintendimento originario che spodesta l’individuo da sé stesso.

Il rapporto tra comunità e identità personale era uno dei punti di arrivo in Sangue di Giuda, nel quale il protagonista – detto Giuda appunto – al termine delle vicende  riacquisiva il proprio nome. In Popoff il problema dell’identità è invece il centro: ricevere un nome equivale in un certo senso a morire, come del resto avviene a uno dei personaggi del romanzo. Il protagonista stesso viene battezzato in pubblica piazza per mano del fratello del parroco Croci Ato, con mestolate di una sbobba detta “broda”.  Questo «battezzo soffocato»è un’umiliazione, un atto di violenza a tutti gli effetti con cui la comunità manda un messaggio ben preciso: senza lo sguardo etichettante degli altri non si può essere nulla.

Il fondo di Popoff è amarissimo, quasi non lascia scampo ad alcuna speranza: il bambino subisce violenze indicibili, il mondo che lo circonda è un susseguirsi di atrocità. Uno dei pochi spiragli è la luce, che il protagonista chiama “Liuc-ce” e per la quale sarà disposto a fare qualsiasi cosa; ma anche questo barlume scomparirà gradualmente, per lasciare posto all’oscurità del paese.

Lo spazio è una dimensione che Gala esplora in maniera molto peculiare: esso non si limita a essere semplice sfondo, ma emerge via via come risultato dell’azione. Se in Sangue di Giuda i personaggi si muovevano attraverso luoghi prefissati (la casa di Giuda, il commissariato), qui invece lo spazio si illumina (o si rabbuia) con l’esplorazione di Popoff. Il bambino sfida in continuazione la paura atavica del buio, la cui origine non sta tanto nella semplice assenza di luce, quanto nel fatto che l’oscurità ha una forza che trasforma lo spazio, ne cambia la conformazione: il buio non fa sparire le cose,  piuttosto ne fa apparire altre, sconosciute e inquietanti. Da qui, forse, l’ossessione di Popoff per la “Liuc-ce”.

Per mettere in scena questa favola nera Gala sceglie lo stile che aveva sperimentato nella novella Ciabatteria Maffei (Tetra Edizioni, 2023) e che rende il romanzo un poema senza versi, con un ritmo da filastrocca costruito attraverso rime, assonanze, inversioni, ellissi, nonché con la continua creazione di parole nuove e la metamorfosi dei nomi in verbi, dei nomi in aggettivi, dei verbi intransitivi in transitivi. La scrittura di Gala è musicale in un senso profondo:  ha la medesima radice dei lamenti delle prefiche, dei canti delle tarantate, delle work songs degli schiavi nelle piantagioni di cotone. La musica è esorcizzazione di un dolore: il corpo che soffre canta, e lo fa seguendo una metrica ben precisa, poiché il ritmo rappresenta una gabbia che permette di misurare l’espressione di ciò che in realtà non è dicibile, di ordinare geometricamente la sofferenza.

Questo uso della metrica non fa che rivelare la vera natura di Gala: non di scrittore, ma di poeta. La sua lingua è assoluta come quella della poesia, essa si fa nel momento in cui la si pronuncia – giacché un poema come Popoff va letto ad alta voce – ed è materia viva che non indica le cose, ma le illumina. Se, come insegna Pascoli, la voce del poeta è in realtà quella del bambino, non possiamo che identificare Popoff con il suo autore: entrambi sono creatori della lingua, la rompono come un giocattolo, le loro parole nascono per la prima volta sulla pagina e sono, come tutto ciò che nasce, sporche di realtà. Mentre il girovagare del bambino ha come fine la ricerca del padre, attraverso la scrittura Gala risale verso l’infanzia alla ricerca della cosa più difficile di tutte: la propria origine.

di Giacomo De Rinaldis