Lorenzo Paolini
pubblicato 6 anni fa in Letteratura \ Recensioni

Restiamo così quando ve ne andate

di Cristò

Restiamo così quando ve ne andate

Restiamo così quando ve ne andate, silenziose ed attonite. Restiamo così, quando ve ne andate, noi lettori, inevitabilmente impressionati dalle esperienze umane dei romanzi, quando li finiamo. Ma dentro l’esperta coscienza di un lettore aperto al dialogo letterario, il silenzio delle stanze vuote avrà il sapore di una leggera brezza che si posa impercettibile sulle dune del deserto, invisibile per tutti, ma che solleva miliardi di granelli microscopici di sabbia. Così, se le case, le pareti, le stanze del romanzo di Cristò (Restiamo così quando ve ne andate, Terrarossa, 2017) si nutrono di emozioni e quando abbandonate cedono all’incuria dell’apatia e alla paura del terremoto, gli uomini nell’universo di Cristò arrancano dietro le emozioni di cui si vogliono cibare e soffrono per la paura di non contenere e controllare il proprio destino.

E Francesco, il protagonista, non sa quanto sia vero. Prima di leggere la sinossi e addentrarsi nelle pieghe emotive del libro, ecco quello che credo sia un solido pilastro del romanzo: la metafora del narratore silenzioso e degli immobili guardinghi; quella metafora che fa del narratore pareti e stanze silenziose che hanno come unico interesse quello del “guardarvi mentre fate le cose di ogni giorno” e quindi, non poter far altro che “tornare nel letargo della vostra assenza quando non ci siete“. Le stanze, come scrupolosi narratori, osservano e orchestrano l’esistenza della casa e di chi ci vive, per la loro sopravvivenza (della casa); fanno di tutto perché chi ci abita possa provare delle emozioni di cui le stanze-narratrici si nutrono. Le emozioni di gioia sono le più auspicabili ma persino i muri lo sanno che fare piangere è più facile.

Francesco ha 42 anni e lavora in supermercato, ma vorrebbe dedicarsi alla musica. Vive da solo, fuma molto hashish, guarda la tv e naviga su google cercando risposte e curiosità. Ha una relazione complicata con Monica, una violoncellista, ma è attratto dalla sua vicina indiana, Fatima. La sua esistenza è rosicchiata dalla disperazione e su di lui incede a passi tardi e lenti la depressione che attanaglia quelli che varcano la soglia dei quarant’anni. Il problema che lo angoscia e lo soffoca non è non sapere cosa fare della sua vita, ma è saperlo benissimo e non riuscire a ritagliarsi un suo spazio nel mondo. Cristò, raccontandoci una parentesi di vita di Francesco, aggancia efficacemente le rigide regole della letteratura con le spietate regole della vita. Il risultato è un commovente spiraglio verso la speranza che “la vita è sacra non la morte“, spiraglio che l’autore riesce a generare nella coscienza del lettore pagina dopo pagina, costantemente ma senza fretta; secondo i suoi tempi e il suo stile. Perché forse, tra le innumerevoli verità del romanzo, quello che principalmente scuote è l’esigenza del protagonista di vivere secondo i propri tempi, seguire le proprie passioni e secondo il proprio stile che deve diventare stile di vita. Non c’è niente di più semplice ma anche niente di più difficile. Francesco infatti non ci riesce, capisce che la sua vita merita una svolta quando il baratro vicino al quale è gli si fa sempre più vicino, quando la stanza dei rimorsi, quella dove c’è il pianoforte, lo riempie di un senso di sconfitta e quando la stanza delle scorciatoie , piena di fumo di hashish e sempre illuminata dalla tv e dallo schermo del portatile, diventa troppo seducente. Bisogna rischiare. E Francesco rischia. E come nella migliore tradizione umanistica, la volontà forte di un cambiamento diventa cosciente quando il protagonista pensa alla morte e all’infanzia e capisce che la vita è un altare sacro che va consacrato con la dedizone della pazienza e con l’entusiasmo della passione. Facendo quello per cui si è nati, vivendo secondo il proprio stile di vita.
Tutto ciò che può risultare azzardato leggendo queste righe o, peggio, vuoto luogo comune, prende un vivido colore di verità nel romanzo, conferitogli dalla rappresentazione che Cristò riesce a costruire raccontando un uomo e la sua realtà, racconto preciso di una depressione attorno alla quale ruotano i principali attori della nostra società: la tecnologia, la televisione, la calca iperconsumistica dell’ipermercato, i meccanismi spesso antisociali dell’azienda, l’hashish, la dipendenza dal sesso e la siderale distanza tra padre e figlio. Francesco è un bambino in balia di tentazioni e di frenesie sociali: è stato un bambino troppo felice ed ora è un adulto che deve maturare. Forse la si può mettere in questi termini, anche se la forza del romanzo sta proprio nelle sfumature soggettive che ciascuno decide come interpretare. Comunque sia, ciò che è insindacabile è l’efficacissima parentesi che Cristò apre sul percorso di maturazione di Francesco, una parentesi che coinvolge l’adolescente così come ogni quarantenne in grado di identificarsi con la nervosa situazione del protagonista. E per Francesco infatti il percorso di maturazione è simile a quello che deve osservare ogni ventenne: farsi faccia a faccia con la solitudine, con il vuoto esistenziale, con la volubilità della volontà e con il farsi schifo. Sì perchè ogni frutto immaturo si fa un po’schifo a guardarsi dentro, ci suggerisce Cristò; ecco perchè scrive che il desiderio di Francesco sarebbe quello di stendersi al sole ad asciugare dopo essersi bagnato nella varechina.

E allora sorge naturale un riflessione che il romanzo si preoccupa di osservare: quale rimedio umano possibile che sia l’equivalente della varechina? Quale soluzione fisiologia? Come pulirsi anima e corpo dalle sporche affezioni della pigrizia e dell’apatia per diventare Uomini? La domanda è molto ambiziosa, un problema esistenziale, ma forse che “la soluzione è più facile del problema”? Forse che ogni uomo è il destino del suo carattere? La risposta giace dietro le melodie partorite da Francesco grazie al suo pianoforte; giace nell’interpretazione della sua scelta di darsi anima e corpo per la sua Creatura: una composizione.
Pareti con anime e scrittori come pareti.

Le pareti delle stanze della nosrra casa ci osservano tutti i giorni, silenziose e guardinghe e noi non ci accorgiamo di loro e quindi lasciamo respirare nuda la nostra interiorità; proprio lì, nella nostra casa. Così, nel romanzo, le stanze diventano anime immobili che muovono e indirizzano come possono l’esistenza di chi ci vive, ma soprattutto osservano silenziose e invisibili. Una tale lettura può portare a individuare una forte metafora tra scrittore e stanze della casa che, analogamente all’autore di un romanzo, vivono grazie ad esistenze altrui, la cui linfa è la fotosintesi delle emozioni degli inquilini, che siamo noi, siamo inquilini per le ispirazioni degli scrittori che scrivono della vita quotidiana, di tutti i giorni, di ogni momento, rendendoli letteratura e consacrandoli all’insegnamento. Il romanzo in questione è un sentiero di indizi da cogliere, di finestre sull’infanzia e affascinanti spaccati di vita realistici (la moka e poi la canna che Francesco fuma sul water con lo sguardo puntato sull’orologio per non fare tardi al lavoro). E dentro questi spaccati di vita il lettore fa esperienza del momento ed esorcizza qualcosa di personale ed indefinito, perché tutti abbiamo fatto zapping a vuoto per silenziare il deserto interiore che ci opprime e trovare questo momento rappresentato così naturalmente da Cristò permette l’identificazione e quindi noi siamo Francesco, sia che abbiamo venti o quarant’anni, perché lo sentiamo vicino, simile a noi, solo come noi. Proprio da questo spiraglio di solitudine esce una luce che il romanzo amplifica fino a farla esaurire in un ambiguo scintillio: il finale come miglior finale per una storia vera che non sia scontata, il miglior finale per la letteratura in pratica, ma la vita non è forse diversa dalla letteratura? La metafora delle stanze-narratrici pone il dubbio lasciandolo in sospeso, dando al libro un ampio respiro, libro che ha il coraggio di dire quello che deve dire assumendo la configurazione che più gli si addice. Un romanzo sporco, volgare e vero quando parla del sesso, tenerissimo quando parla di amore e talvolta sperduto, altre spensierato e così in un istante siamo dentro la testa di Francesco, dentro la sua stanza e pensiamo e soffriamo con lui, fino all’ultima pagina dopo la quale restiamo così quando ve ne andate.

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