Samuel Beckett e Salad Fingers
spazi vuoti
Le varianti di Beckett che hanno cercato di aggiornare la letteratura nel corso del Novecento possono considerarsi infinite, è lui il padre spirituale del postmoderno, a lui sono ispirate le “narrazioni vuote” che per decenni hanno rappresentato l’avanguardia letteraria, la letteratura in cui nessuna azione è possibile. Beckett vedeva nel teatro l’unica cosa che è realmente visibile ai nostri soli occhi: un ambiente desolato, delle mura spoglie e un silenzio che riverbera all’infinito. Il vuoto fu l’unico protagonista dei suoi drammi, e sul palco fu sempre solo, a manovrare coi fili quei personaggi-fantoccio in cui prendeva vita la sua proiezione. I personaggi di Beckett, in effetti, non sono che il prospetto del vuoto, i loro discorsi, pure quando scritti con continuità, attorno ad argomenti fini, sono fittizi e non hanno alcuna continuità. Rifiutano, in qualche modo, il senso. I personaggi si ribellano all’autore che vuole dare un senso alla narrazione. Quando in Aspettando Godot Lucky, lo schiavo sessuale-cane da passeggio del borghese Pozzo, intraprende un balbettante sproloquio interminabile sui massimi sistemi, su Dio e sulle partite di tennis, tutti gli altri in scena cercano disperatamente di farlo smettere, non lo ascoltano neanche, sperano solo che smetta e che si possa ritornare al silenzio stordente di poco prima, che tutto sprofondi nella vacuità, che lo spazio vuoto torni ad essere protagonista. Così, quanto prima, il padrone-magnaccia gli strappa la bombetta dalla testa. Tutti i personaggi portano la bombetta e vi guardano dentro come se in essa fosse riposta parte della propria coscienza o del proprio sapere; già gli atteggiamenti di Vladimiro, uno dei due protagonisti, l’avevano lasciato intendere, dacché guardava al suo interno alla ricerca di qualcosa da dire. Tolta la bombetta, Lucky ammutolisce. Appena i due (schiavo e padrone) vanno via, gli altri due (Estragone e Vladimiro) si lasciano andare al surrogato di una conversazione spontanea, e proprio in quanto tale forzata. Leggere, ascoltare un dialogo di Beckett è entrare in una dimensione altra in cui gli argomenti insignificanti sono assurdi in diretta proporzione alla loro normalità, estranei in quanto vicini, estemporanei in quanto per noi probabilmente quotidiani; così David Firth, le cui opere potrebbero essere perfette rappresentazioni visive degli scenari di Beckett. Salad Fingers (protagonista dell’omonima serie animata diretta da Firth) non è che un uomo che aspetta, e che nell’attesa ha scavato il suo universo indifferente, rendendosi invisibile il mondo devastato in cui ha scelto di non-vivere. In entrambi i casi, di Beckett e Firth, la solitudine del mondo esterno alla narrazione è palpabile, così l’indifferenza, a riguardo, di chi lo vive. Salad Fingers ha solo a cuore i cucchiai arrugginiti e i suoi amici immaginari, fantocci che indossa come ditali da cui prendono vita narrazioni di una storia insignificante, Vladimiro ed Estragone si tengono il muso come amanti capricciosi, immaginano con leggerezza i divertimenti del suicidio e si chiedono, questo sì, come mai il mondo attorno a loro stia cambiando e il motivo per cui loro invece non cambino mai – ma quanto prima il discorso vira su altre banalità e altre ottusità. Salad Fingers invece è solo, nel suo universo non c’è niente se non la terra arida e la sua casa malmessa, nei primi episodi appaiono personaggi umanoidi che sembrano appena scappati da una guerra (verrà più volte nominata una Grande Guerra), spesso sono bambini con vestiti laceri e qualche ferita – si passa quindi da un abbozzo di trama fantascientifica, dai risvolti orrorifici, al puro surrealismo degli episodi seguenti, quando Salad Fingers sarà protagonista assoluto della sua follia – il teatro silenzioso dei tre fantocci immobili sulle sue lunghe dita, le allucinazioni da peste scarlatta e l’estinzione di una madre-demone residente nel mondo capovolto del suo specchio d’ingrandimento. Tra i personaggi del Godot e Salad Fingers corrono più di un’affinità sul piano psicologico, entrambi sono genuinamente attratti dal dolore, entrambi sono ingenuamente effemminati, oltremodo sensibili alle amenità che occorono negli spazi vuoti tutt’attorno. Più affini, invece, agli scenari di Firth per narrazione e caratteristiche dei personaggi sono i testi di Antoine Volodine, autore francese, ambientati, questi ultimi, in lande sterminate e radioattive in cui solo sopravvivono ex istituzioni comuniste che cadono a pezzi, e kolchoz totalitari che ospitano i pochi esseri umani, vivi o morti, superstiti di chissà quale conflitto mondiale innominabile (com’è, d’altronde, il conflitto mondiale che si presume essere occorso nel mondo di Salad Fingers). Anche nei mondi di Volodine i personaggi sembrano non avere uno scopo, muovendosi in quegli spazi vuoti prefigurati da Beckett che, proprio in quanto tali, possono contenere qualsiasi cosa. I collegamenti tra le opere di Volodine e Firth sono però possibili solo in virtù di un giro di vite che la fantascienza ha operato partendo dall’universo beckettiano, ed è forse questa variazione l’unico motivo per cui i libri di Volodine trascendono la fantascienza canonica. I suoi mondi sono gli enormi palcoscenici postapocalittici di Beckett, le finzioni, il genere fantastico come maschera o come mantello per coprire gli spazi vuoti e le indagini silenziose sul vuoto della parola. Così l’opera di Firth, che senza l’elemento beckettiano, soprattutto in Salad Fingers (altre opere presentano, invece, le caratteristiche grottesche del canone kafkiano), sarebbe rimasta nel genere, nell’assurdo o nel surrealismo, per aver rinnovato il messaggio del grande scrittore irlandese non è stata lasciata nei sepolcri dell’internet, ma portata alla luce, tra gli altri, dai minatori della letteratura.
Articolo a cura di Biagio Montanarella