Culturificio
pubblicato 4 settimane fa in Di parola in parola

Sanie – Livio Santoro

Sanie – Livio Santoro

Lo scrittore Livio Santoro ci parla di “sanie”, con cui nobilita “la retorica della decomposizione o dell’infestazione” che informa la sua narrativa.


Benché esistano processi suppurativi di origine abiotica causati da sostanze chimiche, la suppurazione è principalmente un fenomeno a innesco biologico in cui batteri di una o più specie proliferano su tessuti infiammati, lesioni o ferite, generando un fluido di risulta, o essudato, parecchio sgradevole ai nostri sensi: ciò che comunemente chiamiamo “pus”, termine secco e repellente che siamo abituati ad accogliere con espressione di disgusto in volto. Volendo riferirci al fluido suppurativo senza tradirne la sostanza respingente, possiamo utilizzare anche un altro inequivocabile lemma di basso registro: “marcia”, o al maschile “marcio”. Se al contrario intendiamo elevare il registro, distendendo al contempo l’espressione di sopra, possiamo pescare altrove nella famiglia lessicale essudatizia e parlare dell’antico “icore” (invero più adatto alle sole suppurazioni gangrenose) o della letteraria “tabe”. Oppure, ancor meglio, riferirci all’elegante e serica “sanie”, parola con cui, nobilitando l’eloquio o la prosa, si può designare tanto il pus quanto la marcia, il marcio, l’icore e la tabe, ma non solo. Sanie vale infatti anche per i liquami generati durante la decomposizione di carni già morte, non solo morenti. L’etimo è latino: sanies, con cui si poteva indicare la secrezione purulenta e vischiosa del sangue corrotto, il veleno serpigno e di ragno (o la bava di Cerbero), la morchia dell’olio o la salamoia.

Ecco: è proprio sanie la “mia” parola, quella che, mi sembra di poter dire, descrive in maniera efficace buona parte della mia narrativa, benché finora compaia solo in due racconti già pubblicati (Al desiato brago e La sua parola) e in uno di prossima pubblicazione (La Legge Morale Prima). Non è infatti il suo peso quantitativo a determinarne la centralità, bensì la sua forza qualitativa di sintesi, grazie alla quale ho cercato di rendere con taglio positivo la retorica della decomposizione e dell’infestazione con cui finora ho inteso costruire una parte non trascurabile di quanto ho scritto. Al centro di questa retorica c’è appunto la sanie, per i motivi di seguito evocati (e mi si perdoni l’eccesso di didascalismo).

In primo luogo, offrendo l’agio di discutere con registro elevato del processo organico di dissoluzione più estremo e respingente, la sanie favorisce il corretto svolgimento di un’operazione fondamentale nel fantastico, genere entro cui mi muovo: sto parlando del rovesciamento di sguardo. Qui siamo di certo su una dimensione squisitamente letteraria, a tradire il luogo in cui, in effetti, ho incontrato e amato la parola per la prima volta, ovvero la nenia notturna cantata dalla capra mannara Gurù nel romanzo di Tommaso Landolfi La pietra lunare (Adelphi 1995), laddove, grazie proprio a un’opera di rovesciamento di sguardo (e di valore), ci troviamo profondati in un mondo di cose meravigliose e strane, dominio lunare di morti e di mostri: “Pallido volto sanguinoso / Sorgi sull’onda delle valli, / Piovi sulle cigliate rade / Le tue rugiade di carbonchio; / Stanotte a casa non ritorno. / S’affloscia il ventre delle vesce / E brilla il sangue in ogni calice, / Una mortale nebbia valica / La nera cuora degli stagni; / Brilla nel cuore dei tuoi figli / Putrido frutto della notte! / Sanie di luce, madid’ombre, / Vanno le vane forme a frotte”.

In seconda battuta, come d’altronde emerge anche dalla lettura della mentovata nenia, guardo in maniera privilegiata alla sanie perché essa non tace la dimensione generativa della putrefazione, l’altra vita che viene dopo la morte: e non soltanto in termini fantasmatici o spettrali, bensì genuinamente organici, e passo qui da una dimensione letteraria a una biologica. Termine ubertoso e ferace, sanie mi sembra sia allora capace di trasformare le polluzioni in polloni, di inquadrare il disfacimento tissulare, degli organi e delle ossa come una costante inevitabile del processo di generazione e rigenerazione, ovvero come una sua precondizione: niente di nuovo, per la verità.

Infine, e transito ora dalla dimensione biologica a quella filosofica (e se vogliamo politica), la nobile sanie costituisce un elemento assai percepibile che rende evidente sulla nostra pelle e sulla carne l’incessante lavorio delle sterminate colonie batteriche che ci vivono dentro e sopra, favorendo una constatazione e di conseguenza una serie di domande, le stesse su cui poggia buona parte di quanto finora ho scritto. La constatazione è la seguente: in quanto ospiti di vite plurime che sono i corpi a cui anche noi apparteniamo, non siamo paesaggi isolati, bensì ecosistemi, ciascuna/o di noi lo è. Le domande sono invece: se ciascuna/o di noi ospita innumeri insediamenti di batteri (e non solo) dentro e sul copro, e se l’azione di questi batteri ha delle conseguenze dirette (visibili e non, purulente e non) su ciascuna/o di noi, sullo stato di salute e sul comportamento, possiamo ancora dirci individui? Possiamo ancora dire io? O piuttosto dovremmo provare a dirci, pensarci e rappresentarci come un noi, come un soggetto plurale?

Ecco allora perché scrivere sguazzando nella sanie (come in La sua parola, il breve racconto che segue): non per affondarvi, piuttosto per cercare di emergere rinnovati dai pantani della letteratura dell’io.


Da La sua parola (in Le favole nuove, Edicola Ediciones 2024, già in AAVV, multiperso, pièdimosca 2022)

La sua parola è una voce porpora che precede e genera l’oblio, oppure, in casi meno gravi, se te lo concede, che ricostruisce il ricordo. In questi casi attacca a cantare per prima, e altre voci la seguono dappresso. Per me ha cantato un’aria nera che era una gigantesca carcassa nera. L’arco umido delle costole a sorreggere la volta del cielo. Io venni fuori dalla carne per muovermi strisciante dabbasso, al suolo viscoso e cedevole al passo. Si aprì una fenditura, un calice ristretto, e a capofitto vi caddi. Bevvi nolente la sanie inferiore, bevvi liquido denso e grasso. Nuotavo in una pozza tepida e di continuo bevevo sanie. E dato che avevo due orifizi, mentre il primo ingollava costretto, il secondo rilasciava alla pozza quanto l’altro aveva bevuto. Ero io in fin dei conti la pozza, e quella pozza era il mondo. Durò a lungo, molto a lungo bisogna dire, questo processo di libagione e simultaneo rilascio. Durò fino a modellare gradualmente in forma nuova la materia succosa, e renderla così corpo duro e minerale roccioso, sfera massiccia sospesa nel vuoto in cui galleggiano gli astri, e dunque nuovamente soggetta a forze che non saranno mai soltanto la sua. Durò fino a tramutare la sfera in superiore rifulgenza nella notte, luminio verticale indaco e argentino. L’alto riflesso che voi stessi ancora oggi evocate ogni volta quando malinconici e sognanti, meditabondi a sera, alzate gli occhi al cielo, e mi chiedete perché.


Livio Santoro è autore di racconti comparsi su varie riviste e antologie, tra cui «effe», «Nuova Prosa», «CrapulaClub», «Achab» e «tReMa». Scrive per «lavialibera» e «Quaderni d’Altri Tempi». Dal 2012 è redattore della collana di letteratura latinoamericana “Gli eccentrici” di Arcoiris. Sporadiche incursioni nell’ambito della traduzione. Con Edicola Ediciones ha pubblicato le raccolte di racconti Piccole apocalissi (2020), Commedie del vespero e della notte (2022) e Le favole nuove (2024).