Culturificio
pubblicato 5 mesi fa in Di parola in parola

Girandolare – Gian Marco Griffi

perché il tempo non è denaro

Girandolare – Gian Marco Griffi

Lo scrittore Gian Marco Griffi ci parla di girandolare, un verbo che definisce la carica imprescindibile per il meccanismo del suo raccontare


Mentre da giovane girandolavo soltanto per le strade di Asti, la mia città, da adulto (ma prima del Grande sfacelo), ho cominciato a girandolare anche per le strade di altre città, regioni, nazioni, mondi, e mentre da giovane girandolavo per le strade di Asti soltanto il lunedì mattina, da adulto (ma prima del Grande sfacelo), ho iniziato a girandolare per le strade di Asti anche il martedì pomeriggio e il mercoledì tutto il giorno, talvolta anche il giovedì (pomeriggio) e il venerdì (mattina), al punto che il mio girandolare, lungi dall’essere uno sterile bighellonare, come qualcuno è sempre stato portato a supporre – mi riferisco a quei rozzi, banali e atroci esseri umani smarriti nel capitalismo, dell’economia di mercato, del marketing sfrenato, quelli per cui il tempo è denaro e null’altro, mentre il tempo non deve per forza essere denaro, il tempo può essere soltanto girandolare per le strade della propria città – è divenuto un efficace esaminare, un ponderato esplorare, un incantevole fantasticare. Se dunque il girandolare è certamente la caratteristica appropriata di chi girella, di chi ozia, di chi vagabonda, di chi gironzola senza concludere un fico secco, di chi bighellona per i fatti suoi per comperarsi una maglia, o un paio di scarpe, di chi erra senza meta perché non ha una meta dove dirigersi, di chi peregrina per svago, di chi va a zonzo con il naso all’insù una notte d’estate osservando il lucore lattiginoso del cielo, il mio girandolare è divenuto in età adulta (ma prima del Grande sfacelo), più propriamente un immaginare, un raccontare, un inventare. Sono diventato un girandolone la cui aspirazione era quella di andar girandoloni per le strade di luoghi inesplorati, e in essi perdermici fino a dimenticare la mia vita, affinché tale oblio mi permettesse di inventare le vite degli altri.

Del resto fin dal tempo dei turbini della giovinezza, quando il mondo bruciava di domande e io potevo passare intere giornate a fantasticare e a girandolare e a innamorarmi sfrenatamente di parole assurde scoperte sul vocabolario, ho sempre girandolato moltissimo a piedi: girandolavo lungo il fiume e girandolavo in riva al mare, girandolavo all’alba e girandolavo di notte, girandolavo da solo e girandolavo con mio padre, girandolavo col mio amico maestro e girandolavo col mio amico gommista. Girandolavo (a rischio della mia incolumità) leggendo Kierkegaard e girandolavo leggendo Heidegger, girandolavo leggendo Jaspers e girandolavo leggendo Stirner. Girandolavo per raccogliere le idee e girandolavo per allenarmi a immaginare storie che poi avrei scritto. Girandolavo moltissimo giacché girandolare mi dava l’illusione che girandolando avrei smosso quelle paludi di lutulenta ansia che ristagnano nel mio paesaggio interiore, che avrei potuto riflettere sui miei tarli con più competenza e attenzione, che avrei potuto discutere con le persone con più risolutezza, tollerando le posizioni contrarie alle mie, mentre oggi, a seguito del Grande sfacelo, non girandolo quasi più, non girandolo più con mio padre e non girandolo più da solo, non girandolo più con il maestro e non girandolo più con il gommista, non girandolo più leggendo gli esistenzialisti e per farla breve non girandolo più, con nessuno, a nessuna ora del giorno, e non girandolo più dal giorno del Grande sfacelo, cioè da quando mia moglie ha pensato di regalarmi un paio di scarpe per camminare, per girandolare meglio, ha dichiarato, un paio di terribili scarpe da trekking comode, morbide, ammortizzate, scarpe buone solo per guastare la suggestione e la magia della camminata, giacché il mio girandolare era un girandolare improvvisato, estemporaneo, affinché girandolassi era necessario che girandolassi senza premeditazione, senza abiti consoni, come viene viene: uscivo di casa tanto per uscire, iniziavo a passeggiare e a un certo punto, senza che me ne accorgessi, avevo cominciato a girandolare; affinché la mia camminata fosse fertile, affinché girandolando potessi arrovellarmi (quando ero solo) o discutere (quando ero in compagnia) proficuamente, ma soprattutto affinché potessi immaginare un mondo, pensare una lingua, costruire un ambiente linguistico, non dovevo avere il progetto della camminata, nessuna meta né itinerari prefissati, non dovevo indossare abiti consoni (tipo orribili pantaloni sportivi o raccapriccianti tute), men che meno calzare scarpe da trekking comode e morbide, le scarpe da trekking hanno sancito la morte del mio girandolare, io avevo bisogno di stupore, di sconcerto, di disorientamento, avevo bisogno di girandolare calzando mocassini, scarponi, scarpe Oxford, sandali, espadrillas, non certo comode scarpe per camminare; ecco la ragione per cui le scarpe da trekking sono state uno sfacelo, anzi, sono state il Grande sfacelo: benché fingessi di non averle le avevo, erano lì nella mia scarpiera, azzurre e rosse, il mio sguardo ci cozzava ogni volta che dovevo infilarmi un paio di scarpe, e ogni volta che dovevo infilarmi un paio di scarpe mi maceravo sulla questione delle scarpe da trekking, se calzarle o no, o per meglio dire mi domandavo se una volta uscito di casa avrei girandolato o no, fino al punto che questa artificiosità ha celebrato la sepoltura del mio girandolare, insomma oggi non girandolo più, al massimo passeggio, mi sposto a piedi, vado a spasso, talvolta incedo o cammino, ma non girandolo più, ormai il mio girandolare ha perduto la sua spontaneità, la sua incoscienza, il suo azzardo, il girandolare mi è precluso.

Ho sempre legato il mio scrivere al mio girandolare. Se una certezza c’era, nella mia modesta carriera di scrittore del lunedì, era che senza il girandolare non avrebbe potuto esistere lo scrivere. Non è semplicemente un fatto di ispirazione (l’ispirazione può venire anche sotto la doccia, anche sul divano, anche mentre mangio una pizza), è un fatto di costruzione della storia. Il girandolare è la carica necessaria per mettere in moto il giocattolo rabbioso della mia scrittura. E così ogni mio passo sulle stradacce di Asti e dintorni era un giro della chiave che carica la molla del gingillo, ogni camminata, ogni esplorazione, ogni peregrinazione, sfociavano quantomeno in una parola, e talvolta una parola è la condizione sufficiente per imbastire un’intera epopea.

E così un giorno di fine settembre, il giorno in cui mi viene l’illuminazione di scrivere un romanzo partendo da un titolo azionario (“Ferrocarriles Nacionales de México”, “Railways of Mexico”), il giorno in cui mi sveglio e un balenio di sole riflesso sullo specchio del bagno mi ficca in testa una parola stramba e incantevole, gibigianna – e so per certo che non me la toglierò di mente finché non la scriverò, finché non la inserirò in una storia –, il giorno nel quale mi frulla la voglia sconsiderata di vivificare un curioso hapax legomenon, sagittabondo, di fatto estinguendolo come hapax legomenon per il semplice fatto di utilizzarlo nel mio romanzo, quel giorno ho l’urgenza di girandolare, ne sento il bisogno, ma ogni tentativo cade nel ridicolo, nonostante le polacchine scamosciate e i pantaloni di flanella e il cappotto più grande di due taglie i miei sforzi sono un fiasco completo, e lo sono proprio per il fatto che il mio girandolare non può essere disciplinato o pianificato, non può prevedere alcuno sforzo, alcuna consapevolezza; non sono mai stato tanto distante dal girandolare, devo arrendermi all’evidenza che al momento il mio girandolare è neutralizzato, inefficace, riesco soltanto a incespicare qua e là, a tirare fino a sera deformando mentalmente la fisionomia del protagonista del mio romanzo, identificandolo con una terribile e bellissima parola composta, maldidenti, fino a visualizzare il suo volto ora come una specie di rapa ammuffita, ora come un broccolo rinsecchito, ora come sormontato da un pantagruelico molare cariato. Dormire neanche a parlarne, osservo il barbaglio della luna che riflettendosi nel catino di una fontana fa la gibigianna sulla sporgenza del tetto di una villetta, poi passo la notte a girandolare nella mia testa, in Messico in Islanda in Germania, e girandolo fino al mattino, quando un’alba abbacinante mi arde le iridi, il vento tira su mulinelli di polvere e cartacce – bruscoli di umanità che mi sferzano la pelle – vorrei tramutarmi in un tasso, in un paradosso, in un nontiscordardimé che cresce nelle crepe dell’asfalto rovinato, ma subito la Banca Intesa e l’insegna luminosa della farmacia, un semaforo lampeggiante e la pubblicità dello shampoo antiforfora mi rammentano la mia appartenenza al genere umano, mi inchiodano al legno di un gigantesco retablo che sembra realizzato apposta per narrare la storia della sconfitta umana al cospetto del caso, del destino, di un dio sagittabondo pronto a impallinarci con le sue sentenze di vita o di morte. Sono insaziabile di bellezza, ma l’orrore quotidiano mi accerchia, mi acceca, mi chiude lo stomaco, mi paralizza. E io avrei bisogno di girandolare ancora, di girandolare per immaginare, per fantasticare avventure, per scrivere d’amore (l’amore è girandolare, girandolare selvaggiamente, girandolare sconsideratamente), per raccontare un mondo che volteggia follemente mentre io indosso stupidissime scarpe da camminare, per inventare nuove storie; macché, invece di girandolare zoppico, claudico, cammino come su un tapis roulant, ma poi all’improvviso tutto cambia, lo ricordo bene quel giorno di inizio ottobre con l’alba suscitata dal canto del gallo che elenca le foglie una a una; scendo sotto casa e trovo il coraggio di risolvere il Grande sfacelo: getto le scarpe da trekking in un cassonetto per l’indifferenziata e così, sgravato di ogni costume, di ogni convenzione, di ogni prassi, ricomincio a girandolare.


Da Ferrovie del Messico, Laurana editore, 2022

Ena tria pende eftà!

Il vento porta profumo di timo e vedovella celeste. Cesco incontra Tilde sotto il bersò di un’osteria accanto alla Madonna di Hrisafittisa, con vista sull’enorme mare che circonda Malvasia e su un tramonto viola che pare dipinto su un vaso miceneo accanto alle figure di Apollo e Dioniso.

Lo sta aspettando coi capelli sciolti, arruffati dal meltemi dell’Egeo, e appena lui arriva se li lega con un elastico giallo.

Cesco domanda: perché?

Intende: perché costringere capelli tanto lucidi e vivi a unirsi in un assetto strutturato?

Lei ribatte che tutte le cose dovrebbero gioire quando si uniscono in un assetto strutturato.

Cesco le domanda se anche i loro corpi gioirebbero se dovesse accadere di unirli in un assetto strutturato, e lei replica che anche i loro corpi gioirebbero.

Mentre sorseggiano ouzo Cesco dice: Tilde, mi ami?

Il silenzio che segue è una cosa molto appuntita conficcata nel cuore del povero Cesco.

Tuttavia Cesco non si dà per vinto.

Dimmelo, Tilde, ti prego. Sono pronto a tutto.

Tilde sta ponderando la risposta.

Cesco domanda: sarebbe troppo domandare una carezza?

Tilde, chissà perché, prende un’aria offesa, lo guarda e dice: sarebbe troppo.

Almeno un pizzicotto, qualcosa che dimostri il tuo affetto, dice Cesco. Sempre che affetto non sia una parola troppo desueta.

Forse l’affetto non è inesatto, precisa Tilde, ma è logoro e abusato.

Poi legge l’oroscopo di Mario Segato sulla «Stampa sera».

C’è scritto che non siamo fatti l’uno per l’altra, dice Tilde a Cesco.

Cesco dice: Tilde, protesto! Giacché sul mio sta scritto che devo saltare con te su un treno messicano e girandolare sulle ferrovie messicane per sempre. Vivere su una carrozza per sempre.

Tilde dice: vivere sulla carrozza di un treno è la cosa più scomoda che io possa immaginare.

Se ne va, lasciando Cesco solo a riflettere sulla crudeltà degli oroscopi e a parlare con un cane randagio di quel di cui si parla quando si parla d’amore a Monemvasía.


Gian Marco Griffi vive ad Asti, dove dirige un circolo di golf. Appassionato di storie, legge e scrive da sempre. Dopo Inciampi, raccolta di racconti pubblicata da Arkadia nel 2019, ha scritto Ferrovie del Messico, il suo primo romanzo, pubblicato da Laurana Editore nel 2022, vincitore di numerosi premi letterari.


Di parola in parola è una rubrica a cura di Emanuela Monti. Dalla nota introduttiva è possibile scaricare l’archivio della rubrica, uscita fino al 2019 in forma cartacea nella rivista «Qui Libri».