Culturificio
pubblicato 4 anni fa in Altro

Tempo di cura – il trauma del distanziamento fisico. Se la cura fosse una danza?

Tempo di cura – il trauma del distanziamento fisico. Se la cura fosse una danza?

Lo psichiatra Cancrini in una recente intervista su «La Repubblica» definisce il momento storico che stiamo vivendo come “il tempo della cura”, una cura reclamata a partire da un desiderio di vicinanza e prossimità simbolica e fisica attualmente negate.

 La domanda che però ci facciamo è: quando tutto questo sarà finito, di cosa scopriremo di avere veramente bisogno e quale cura invocheremo davvero? La cura passerà proprio attraverso il recupero del contatto perduto con il nostro corpo, con l’altro, con gli altri e con l’ambiente? Dovremo invece scoprire che dopo l’isolamento è ancora più necessario accendere e coltivare la nostra intelligenza emotiva e soprattutto quella cinestetica, senso-motoria?

Ognuno di noi ha una lista più o meno lunga di cose che sono mancate in questo periodo di isolamento, che non è difficile stilare. Questa probabilmente comprenderà tutte le nostre abitudini, le routine che durante questa pandemia abbiamo dovuto interrompere. Ma la lista comprenderà anche un insieme di cose di cui non ci rendiamo conto e che appartengono invece alla sfera affettivo-cognitiva e al nostro essere corpo, al nostro percepire, al nostro essere in contatto con l’ambiente, con lo spazio… al nostro stare al mondo o al nostro esserci nel mondo come avrebbe detto il filosofo Heidegger. Proprio il nostro percepire il mondo, il nostro stare al mondo in questo tempo sospeso è stato stravolto. La vera esperienza “traumatica” è stata quella di aver sperimentato non tanto il distanziamento sociale ma di essere stati sottoposti ad un “distanziamento fisico” che ci ha reso coscienti invece proprio della necessità e dell’importanza di un contatto fisico-emotivo.

 Il tema del “distanziamento sociale” è un tema classico affrontato dalla sociologia dai tempi di Simmel. La distanza sociale è in realtà cosa sperimentata e a cui anzi siamo abituati, ha infatti continuato ad abitare e ad aumentare negli spazi delle nostre città, metropoli e megalopoli: in tutti questi luoghi, nonostante un aumento della promiscuità sociale, questo distanziamento è stato solo apparentemente cancellato dalle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione che ci hanno persuasi che fosse possibile livellare la spazialità sociale. Questa falsa promessa della comunicazione virtuale ci ha fatto credere che concetti come quelli di differenza sociale e di distanza sociale siano ormai obsoleti, ma invece le distanze sociali sono sempre state tra noi. Il distanziamento sociale, costituito da elementi simbolici e psico-sociali è sempre esistito e mai scomparso.

Assodato che il “distanziamento sociale” (social distancing) permane anche in una fase come questa in cui la vita “social” non è mai stata così attiva, occorre focalizzare la nostra attenzione su ciò che stiamo sperimentando ora e di cui forse stiamo soffrendo di più che ci riporta invece al concetto di “distanziamento fisico”. Stiamo parlando della mancanza di contatto fisico e psichico al tempo stesso e non della mera vicinanza o promiscuità sociale. Quello che stiamo vivendo oggi è proprio un cambiamento del nostro stare al mondo, del nostro rapporto tra corpo e mondo: adesso ci viene richiesta una distanza fisica, ci viene ricordata la vulnerabilità dei nostri corpi ora esposti ad un virus sconosciuto, ci viene impedita ogni forma di contatto e di conforto emotivo che da esso deriva. Vietati sono gli abbracci, le strette di mano, i baci, gli scambi prossimi di sguardi e parole.

Per la prima volta forse quello che stiamo sperimentando durante questa pandemia è la consapevolezza dell’esistenza di una mente-corpo e delle sue naturali esigenze.

L’intuizione della “mente-corpo” appartiene alla filosofia fenomenologica, in particolare al pensiero del filosofo Merleau Ponty, le cui ricerche sono state un importante punto di partenza per le neuroscienze e per lo sviluppo del concetto di embodiment (mente incarnata). Grazie a questi studi si è iniziato a tenere conto del ruolo essenziale delle dinamiche corporee e senso-motorie nei processi percettivi e cognitivi, superando vecchie dicotomie come quelle mente/corpo, cognizione/emozione.

Il concetto di embodiment apre dunque nuovi sviluppi anche per quanto riguarda l’ambito delle cure e delle terapie cliniche. L’essere umano è innanzitutto un corpo che si apre al mondo e all’altro e questo porta a considerare il corpo vissuto vero oggetto e soggetto psichico.

A partire da queste considerazioni si aprono nuove prospettive dunque per tutte quelle terapie corporee come la danzaterapia o la danzamovimentoterapia, disciplina che basa i suoi interventi clinici sulla valorizzazione dell’intelligenza corporea e, come definisce l’ American Dance Therapy Association, prevede l’uso terapeutico del movimento corporeo al fine di integrare i diversi aspetti emotivi, sociali, cognitivi e fisici dell’individuo.

La Danzamovimentoterapia, definita spesso con l’acronimo DMT, fa riferimento a differenti modelli teorici accomunati dall’obiettivo comune di favorire un’attiva e creativa espressione del sistema corpo-mente, promuovere una buona salute generale e prevenire o ridurre l’impatto di alcune patologie psichiche o disabilità. Due grandi ricerche compiute negli Stati Uniti dagli anni ’80 ad oggi attestano l’efficacia di questa pratica corporea nella riduzione dell’ansia, della depressione e dei disturbi post traumatici. Evidenti risultati sono stati registrati soprattutto per quanto riguarda il miglioramento delle capacità relazionali (interpersonal skills).

La Danzaterapia è in realtà una pratica molto più antica di quanto pensiamo, in fondo radicata in ciascuna delle nostre culture, poiché recupera proprio l’originaria funzione simbolica della danza, quando essa era gesto rituale e simbolico della comunità, prototipo di una pratica psico-sociale che stabiliva la relazione corpo-mondo, presentandosi a volte come un naturale medium terapeutico.

Chissà dunque che alla fine di questo periodo in cui la relazione corpo-mondo sembra sospesa e modificata, dopo aver vissuto e sperimentato i disagi o forse il trauma del “distanziamento fisico”, non sia proprio la danza e in particolare la danzaterapia a rieducarci, come avveniva un tempo con le danze rituali, alla prossimità sociale e fisica e che non sia proprio essa ad aiutarci a  recuperare quella relazione tra corpo e mondo che ora sembra perduta, riabituandoci e ricordandoci la prossimità, laddove non ci venga più richiesto come in questo momento un necessario distanziamento.

di Mara Gentile

Fonte dell’immagine