The neon demon
desiderio mimetico e sacrificio della bellezza (parte 1)
The neon demon è un film che ha un’essenza profondamente girardiana, non solo per l’evoluzione dell’intreccio e la strutturazione di triangolarità continue tra i personaggi ma anche per la sua forma, per la sua estetica tesa al mascheramento, un mascheramento che tuttavia si muove in superficie, esplodendo con prepotenza nel campo del visibile, tanto che sarebbe inutile parlare di simbolico: ogni elemento, ogni scena è pura superficie, puro corpo e pura luce. Eppure in esse è in gioco il mascheramento. Potremmo definire The neon demon una fiaba oscura, gotica, estremamente violenta. La fiaba, infatti, si dà in tutta la sua semplice icasticità: non abbiamo bisogno di contestualizzare eccessivamente ambienti e personaggi; le cose semplicemente accadono come se tutti fossero irretiti da qualche filtro o sotto l’effetto di un’ipnosi: ma è proprio questa sensazione di fatale impossibilità ad agire diversamente che occorre decostruire e tematizzare, perché è proprio lì che il mascheramento gioca, velandosi e disvelandosi, producendo una narrazione che giustifica lo svolgersi e la risoluzione del racconto e cercando di obliterare (ma l’assoluta gratuità della violenza deborda sfacciata, non solo tra i personaggi ma anche nell’universo sacrificale che perpetua l’economia circolare tra moda e morte) l’innocente crudeltà dello spettro di una violenza originaria. Come in ogni fiaba che si rispetti la trama è veramente delle più semplici: Jesse è una giovanissima ragazza in fuga da qualche sperduta provincia americana che cerca fortuna nel mondo della moda di Los Angeles. Sin dal primo colloquio le viene prefigurato un futuro di successi e, in effetti, accede subito allo studio del più importante fotografo e, poco dopo, riesce a folgorare uno dei maggiori stilisti di L.A. che le permetterà di chiudere la sua sfilata. Jesse, sin dal primo servizio, suscita il fascino di Ruby, una truccatrice che vive il margine del “dietro le quinte” del mondo della moda ed è amica di due modelle, Gigi e Sara, già inserite nel giro di Los Angeles: questi tre personaggi saranno preda di un progressivo rafforzamento del risentimento generato dalla mediazione di Jesse che sfocerà in un sabba infernale di cui mostreremo la natura.
Per rivelare con rigore la matrice girardiana di The neon demon occorre analizzare le macro-sequenze che compongono la pellicola seguendo la crescente intensificazione della mediazione nel passaggio da esterna ad interna e, contemporaneamente, tenere sempre presente la gratuita inevitabilità della violenza sacrificale la cui evidenza tende a dissolversi perché oscurata dalla luce troppo abbagliante della fiaba: una luce che viene condensata (con una precisa funzione deresponsabilizzante) in un elemento demoniaco che agisce da una parte come segno vittimario e dall’altra, in modo molto meno soprannaturale, come segno di consapevolezza e riconoscimento che Jesse comincia a sentire e ad affermare contro l’alterità, in modo da marcare una distanza ancora più vertiginosa rispetto agli altri personaggi sempre più sfiniti dall’abisso dell’indifferenziazione mimetica e dall’amore/odio con cui guardano alla sua idolatrica altezza. Ogni scena è intrinsecamente mimetica perché è costruita intorno allo sguardo. In ogni scena, infatti, Nicolas Winding Refn, sceneggiatore e regista di questo capolavoro del 2016, posiziona la macchina da presa in modo da creare un’inquadratura che sia sempre vettore di sguardo (cifra stilistico-narrativa che, lo segnalo come ipotesi di ricerca, può essere il nucleo di un cinema “mimetico”). Refn compone lo spazio filmico come un luogo solcato dalle intensità degli sguardi, i quali rimbalzano passando da un volto all’altro, generando geometrie che direzionano il desiderio e che, nella triangolarità, strutturano quelle polarizzazioni in cui andranno a consolidarsi le frustrazioni, la sofferenza, il risentimento (come desiderio mediato) da una parte e il riconoscimento (come forma del desiderio di sé) dall’altra. Emblematico da questo punto di vista è il blocco narrativo della festa. Jesse è la modella di un servizio fotografico amatoriale fatto da un ragazzo che subito si innamora di lei. Jesse viene truccata e ritratta come un cadavere: lo splendore candido del suo corpo inerte genera un desiderio intenso nello sguardo di chi la ritrae ed è cifra di un elemento cruciale del carattere di Jesse che analizzeremo a tempo debito. La truccatrice di questo servizio fotografico è Ruby che, immediatamente, si affeziona a Jesse e, vedendola sola e spaesata, la invita ad una festa in cui conoscerà anche Gigi e Sara.
Il momento della festa, nell’indifferenza dell’oscurità penetrata dalle luci al neon, è un vero e proprio assedio di sguardi: non appena entra nella sala Jesse comincia ad essere osservata con interesse quasi morboso. Risulta subito evidente come le venga attribuita una qualche incoercibile pienezza d’essere, una purezza innocente e inviolabile, una forza in grado di canalizzare i desideri altrui. Refn, abilmente, continua a rinforzare le inquadrature oggettive facendoci notare come non siano mai neutre ma, piuttosto, dominate dalla rete di sguardi che converge su Jesse, facendole dialogare con i primi piani dei volti così da sottolineare l’amore ed insieme il disprezzo che li abita. Se questo avviene nel silenzio degli sguardi, ciò che avviene a livello verbale è un palese tentativo da parte delle altre modelle di attentare alla purezza della giovane e bellissima ragazza. Gigi mostra subito tutta la sua fragilità risentita nel proporle il contatto di un chirurgo plastico, come se il rifarsi e il non accettare la propria bellezza fosse un elemento organico del suo fisico e del suo spirito, come se l’infernale circolarità economica tra moda e morte s’impiantasse naturalmente in una pratica tesa al superamento della propria finitezza, una tensione verso la marionetta (“guardami: mi chiamano la donna bionica!” riferisce Gigi a Jesse e quest’ultima, innocentemente (?), risponde: “dovrebbe essere un complimento?” suscitando la risata di Sara…), verso una disumanizzazione che la porta ad essere contemporaneamente vittima e carnefice del medesimo meccanismo sacrificale. Sara, invece, la ingaggia su un altro piano della questione (ma sempre nello stesso orizzonte mimetico):
non è quello che tutti vogliono sapere? Una ragazza nuova e carina entra nella stanza, tutti si girano a guardarla dall’alto in basso, chiedendosi: chi si scopa? Chi si potrebbe scopare? E quanto in alto potrà salire, quanto più in alto di me?
Sessualità e competizione, sessualità in funzione della competizione ed ecco che l’estranea bellezza di Jesse diventa l’oggetto scabroso che scardina le logiche del mondo a cui sono abituati questi personaggi; tale anomalia è però, d’altra parte, anche la rappresentazione più corrusca del senso della moda stessa, quella bellezza innocente che è lì solo per essere desiderata e poi sacrificata, un pegno per placare la morte e il suo essere organo-ostacolo della bellezza e della “perfezione”. Ruby, invece, è testimone silenziosa di questa scena: all’inizio della pellicola, infatti, Ruby non soggiace alle logiche sacrificali dell’accerchiamento perché la mediazione esterna che Jesse esercita su di lei non è ancora soffocata dai miasmi della mediazione interna e (ormai possiamo inserire anche questo nuovo elemento) il suo desiderio non è ancora stato messo alla prova dalle sofferenze della doppia mediazione e da un riconoscimento che non avviene mai e che, anzi, verrà misconosciuto e brutalizzato nel suo valore.
Articolo a cura di Matteo Bisoni
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Delle cose nascoste , un blog che dalle idee di René Girard cerca di dare una nuova chiave di lettura sia della società che dei suoi prodotti culturali. Abbiamo voluto pubblicare questa rubrica perché crediamo che il pensiero di questo studioso, un intellettuale sorprendente che ha dato un contributo originale nei campi di studio più disparati (si spazia dalla letteratura all’antropologia, dalla sociologia alla storia delle religioni) sia di fondamentale importanza per coltivare una visione critica sul mondo, soprattutto sulla nostra contemporaneità.