Fleming, Ian Fleming!

tra le pagine del padre dell’Agente 007

Fleming, Ian Fleming!

Un film della saga di James Bond non sarebbe degno di questo nome se la spia più famosa della cultura pop non dichiarasse, con tanto di sguardo magnetico verso l’assemblea degli spettatori:

Il mio nome è Bond, James Bond!

E tanto di cappello alla regia, buona e meno buona, che in ogni caso riesce a intrufolare l’iconica frase dell’Agente 007.

Riletto, riscritto, rimaneggiato e parodiato da tutti i media possibili ed immaginabili – sorte comune alla maggioranza delle icone di consumo – James Bond deve i natali alla penna del londinese Ian Lancaster Fleming (1908-1964). Se il primo, tuttavia, grazie alla trasposizione cinematografica e alla brillante interpretazione di un giovanissimo Sean Connery, ha goduto del successo sperato da subito, il secondo ha dovuto attendere non poco per essere rivalutato dalla critica.

Cosa porta alla nascita di Bond?
Probabilmente le prime tracce sono da ricercarsi nella stessa biografia di Fleming.
Non fu certamente uno squattrinato spirito bohémien, tutt’altro.
Secondogenito di ricchi, anzi ricchissimi, ebbe un’educazione di tutto rispetto: studi a Eton, educatori svizzeri, frequentazioni politiche, militari, letterarie e giornalistiche di classe, grande amante delle donne e del lusso, avido e distinto lettore di Mann e Rilke (Vanni Codeluppi, Eroi. Superman, Batman, Tex, 007, Harry Potter e altre figure dell’immaginario, Franco Angeli, Milano 2015, pp. 39 e sgg.).
Probabilmente si annoiava, conduceva una vita piena di tutto e niente, e da qui a smarginare nell’immaginario il passo è breve.

Fleming optava per veri e propri ritiri, lontano da tutto e da tutti, e si sottoponeva a rigidi rituali di ideazione e stesura delle storie che vedono Bond come protagonista. Che immaginasse egli stesso di compiere le azioni spericolate dell’Agente con licenza di uccidere?

Secondo John Pearson, biografo di Fleming, non c’è dubbio che l’autore abbia dato i natali a James Bond assumendo se stesso come esempio.
Una relazione, quella tra autore e personaggio protagonista, che nella letteratura non ha mai cessato di esistere. Un legame di amore e odio, costellato da mille difficoltà e irrisoluzioni stilistiche, costantemente in bilico tra l’idealizzazione autobiografica e la volontà di distaccarsi dal ruolo del protagonista. Sorte comune ad un gran numero di autori di qualunque provenienza geografica e culturale. Basti pensare a Gabriele D’Annunzio e al suo Andrea Sperelli (Giorgio Bàrberi Squarotti, Il Prato di carta in Atti del XII convegno internazionale di studi dannunziani, Pescara 1989, p. 15) o ancora Goethe e il suo Werther (Alessandro Iovinelli, L’autore e il personaggio, Rubettino, Catanzaro 2004, p. 132) – e dunque Foscolo e Jacopo Ortis – Tom Clancy e l’agente Sam Fisher e tanti altri nomi noti alla critica letteraria.
Nonostante eroi di ogni genere invadano la cultura di massa, Ian Fleming ne ha creato uno in grado di smarginare in molteplici livelli. Quando parliamo di James Bond, infatti, non facciamo riferimento solo al personaggio della spia inglese ma a tutta una serie di particolari che allo stesso sono legati a doppio filo.
Fleming ha raccolto abilmente tutto ciò che gli piaceva, dal vizio del fumo e dell’alcol – “Vodka Martini agitato, non mescolato” -, sino agli alberghi, i cibi, la musica, le auto – si pensi alla mitica Aston Martin -, le discipline sportive, gli abiti preferiti (Vanni Codeluppi,  cit., p. 42) e li ha uniti nella figura di Bond, traendone un vero e proprio franchising ante litteram.

Già, perché se oggi affezionarsi a determinati brand o prodotti affiliati a un’opera letteraria, televisiva, cinematografica e così via, rientra a far parte della norma, negli anni in cui James Bond faceva il suo debutto non era affatto cosa comune.
Cosa piaceva – e piace – dell’Agente 007?
Probabilmente ciò che piaceva al suo stesso papà/autore: la libertà.
Bond non ha famiglia, non deve neppure pensare a crearsela per tenere buona la società, egli ne è infatti espunto, superomisticamente al di sopra; ha di fronte a sé infinite possibilità e non ha paura di scoprirle tutte.
Romanzo dopo romanzo, tuttavia, il suo personaggio non cresce, non si evolve.
Laddove Ortis, Sperelli e gli altri alter ego letterari d’autore, subiscono un cambiamento che in qualche modo finisce per portarli ad una nuova consapevolezza o ad una fine tragica, non è lo stesso per la Spia di Fleming.
Duro, freddo e affascinante, James Bond sembra essere immune alla vecchiaia e le sue storie seguono, come ha evidenziato sapientemente Umberto Eco nel saggio Le strutture narrative di Ian Fleming (1965), uno schema mescola sempre gli stessi ingredienti: un malvagio straniero, una minaccia globale che nella maggioranza dei casi concerne con il nucleare, una giovane donna in grave ambasce che alla fine della missione – ovviamente riuscita – sarà ben contenta di consolare il Nostro e di curare le sue ferite.
Eppure tutto ciò non manca di attirare, ancora oggi, un folto seguito di ammiratori pronti a difendere la saga a spada tratta. Una saga che tenta di liberarsi del manto, scadente e inopportuno, della misoginia e della xenofobia – caratteristiche che non hanno mancato di contornare tristemente la figura del “primo” James Bond – e di svecchiarsi, per rendersi ancor più gradevole al pubblico.

Col passare degli anni i volti cinematografici dell’Agente più famoso della letteratura di consumo sono stati i più disparati: dall’indimenticabile Sean Connery, sino a Pierce Brosnan, Roger Moore e Daniel Craig, il James Bon attualmente “in carica”.
La grande comunità dei fan della saga non ha mai trovato un accordo in merito a chi sia da eleggere come interprete migliore, la piccola e discreta comunità di lettori non ha mai avuto dubbi, invece: se James Bond fosse reale avrebbe il volto del padre/autore, Ian Fleming.

 

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