La forma e la sostanza. Conoscenza e Intelligenza a confronto.
L’apparenza ormai è uno dei connotati dell’epoca in cui viviamo, quasi un requisito ineludibile che fonda le basi della società. Un requisito che ha l’obiettivo precipuo di creare una parvenza di realtà, di dissimulare qualcosa per nascondere il reale contenuto dell’essenza. E questo avviene praticamente in ogni campo, in qualunque momento e condiziona qualsiasi persona: tutti si adoperano nell’essere appariscenti, tutti si affannano nella creazione di una forma che possa cucirsi alle richieste sociali o essere conforme al “mood” del momento. Per essere icastici e sintetici la forma è sostanza! Il contenuto non importa, basta conformarsi, vestirci di una “cover” che protegga quel poco che abbiamo o crediamo di possedere. E tutto questo ha un ruolo preminente nella formazione culturale di ognuno, visto che bisogna a ogni modo apparire sarà totalmente inutile riempirci di contenuto. Basta mostrare di essere, è sufficiente questo.
Una circostanza davvero interessante è che nei luoghi di apprendimento (scuole e università), ci si è ridotti nell’offrire un bagaglio di nozioni esclusivamente tecnico e teorico e un sapere statico, si insegna il sufficiente, rimanendo ancorati a quelle nozioni e non oltrepassandole, spesso (ma non sempre) non si danno le capacità sufficienti per interconnettere argomenti diversi, sviluppare un ragionamento che sia proprio e si rimane nell’incapacità di leggere il mondo. E la tendenza sarà quella di sovrapporre totalmente il concetto di conoscenza con quello di intelligenza. E cosi è. Chi conosce qualcosa purchessia è marchiato col timbro di intellettuale, il sapere relativo ad una materia viene tradotto come sapere assoluto del mondo, ed ecco che anche nel campo culturale, a volte l’importante è apparire. Mostrare di avere la cognizione di una parte di mondo per apparire un deus ex machina. È molto pericolosa come concezione, perché si valorizza proprio quel sapere tecnicistico, smontando fatalmente le abilità di chi non ne è dotato. La cultura di qualcosa in particolare, non può essere il sapere del mondo in generale, ed è una differenza abissale rispetto al concetto di intelligenza. Il titolo di studio è il timbro sulla conoscenza di quel sapere particolare, e chi lo confonde con la conoscenza del sapere assoluto si autocertifica come un ignorante, inteso come chi ignora questa ovvia differenza.
Raymond Cattell, uno psicologo inglese, tendeva a distinguere tra intelligenza fluida e intelligenza cristallizzata, dove la seconda richiama il saper utilizzare conoscenze già acquisite e la prima come abilità di risolvere nuove situazioni indipendentemente da quanto acquisito. In modo paradigmatico questa affermazione ci spiega già la diversità tra cultura specifica e intelligenza. In altre parole si può distinguere come l’insieme di strumenti cognitivi e tecnici la prima e la capacità di leggere il mondo, tradurlo, a prescindere dall’utilizzo del bagaglio cognitivo posseduto, la seconda. Quindi il sapere tecnico non è una condizione sicura per leggere il mondo, al limite ci aiuta a decifrare una parte di mondo a cui si riferisce quella preparazione e può essere quindi un presupposto possibile sì, ma non necessario per districarsi nell’intelligenza fluida. Ecco che viene da chiedersi allora quali siano gli strumenti per lo meno necessari e sufficienti, quali siano i “radar” che ci aiutino a comprendere dove siamo e qual è la via per arricchirci di sostanza.
Lo strumento predominante è senza dubbio la lettura: la lettura di libri, romanzi, novelle. Ormai è un fatto scientificamente provato oltre che noto, che leggere ci faccia acquisire qualcosa di più di semplici strumenti cognitivi. E’ esso stesso uno strumento, che abitua alla fluidità e alla versatilità del pensiero, allena il cervello a stabilire connessioni tra argomenti diversi in modo veloce, crea una mente più aperta, ricca, una mente che “fantastica”. Studi dimostrano che aiuta le relazioni sociali, addirittura aumenta l’empatia. Praticamente assolve anche ad una funzione pedagogica! Ma soprattutto “la letteratura ci insegna la trama qualitativa del mondo”, frase tremendamente vera quanto sublime, affermata da Helen Macdonald, scrittrice, vincitrice tra l’altro del Premio Letterario Merck col suo romanzo Io e Mabel. Aggiungendo che “dobbiamo creare dei legami emotivi tra le persone e comunicare il valore delle cose, in modo che forse le persone saranno disposte a lottare per salvarle”. Ed ecco ancora la funzione educativa della letteratura.
Magari può non essere così, c’è chi dirà che basta la preparazione e lo studio settoriale di una materia per acquisire gli attrezzi cognitivi, che permettono al soggetto di cavarsela in questa realtà dal profilo frastagliato e mettere soluzione a qualsiasi problema, oppure, come dice Stefano Benni, “taccio sempre davanti all’ignoranza e alla mancanza di senso, non meritando esse alcuna attenzione, parlo con stima davanti a intelligenza e sensibilità d’animo. E’ intelligente non chi legge miriadi di libri ma chi sa leggere dentro alle situazioni di ogni giorno”.
Se tutto ciò che ho scritto è vero, c’è bisogno però di un pre-requisito, che agisce da forza motrice e che inquadro nel dubbio, che Jorge Luis Borges, grandissimo poeta e scrittore argentino, addirittura diceva essere “uno dei modi dell’intelligenza”. Solo se si è consapevolmente ignoranti e sapere di non sapere (Socrate), siamo spinti a conoscere. Essere nel dubbio per andare alla ricerca del vero, quindi come pre-condizione per riconoscersi non dotati di sostanza (cultura) e rifiutare il dogma dell’appariscenza, cioè evitare di essere solo forma, ma essere soprattutto sostanza.
Articolo a cura di Giovanni Aversente