Culturificio
pubblicato 2 anni fa in Di parola in parola

Diserzione – Marino Magliani

ovvero l’oltrepassare un confine, anche solo metaforico

Diserzione – Marino Magliani

Lo scrittore Marino Magliani ci parla di ‘diserzione’, un sigillo impresso a fuoco sulla sua esistenza già dalla nascita e tema centrale nel romanzo Il cannocchiale del tenente Dumont (L’orma editore, 2021)


Uno scrittore di frontiera sosteneva che l’autore non conta nulla, che i suoi natali, ad esempio, non erano importanti. Eppure ci sono persone, ci sono autori che, anche volendo, non riescono a metterla in questi termini, forse perché a parte quel po’ di dati biografici possono dire davvero poco, e allora a quel tipo di notizie ci si aggrappano come l’edera ai muri. Il luogo di nascita, andate a chiedere a uno – a uno come me – nato in un ricovero per anziani di non citare nelle sue note certi particolari. Come si fa? Uno può nascere su una barca, per una strada, in campagna, in un ospedale, rigorosamente in casa, ma in un ricovero per anziani, via… dev’essere emersa in quelle circostanze la mia diserzione, l’inconsapevole progetto, e da quel luogo e da quel giorno non ho fatto altro che disertare.

Per un po’ mi sono pure preso in giro: via, tu non sei un disertore, tutt’al più sarai un esule, o un esiliato. Un giorno a una presentazione a Torino ammisi di sentirmi un esiliato e la persona che parlava con me in pubblico, era una signora, non mi usò nemmeno la cortesia di farmi notare in privato che si si diceva esule e non esiliato. Restituii la cortesia, raccontando che avevo un amico che usava proprio quel termine, esiliato, come me, e quell’amico si chiamava Antonio Tabucchi. La signora insisteva, poteva anche dirlo Tabucchi, ma si diceva esule.

Chissà, forse fu in quell’occasione che alla fine realizzai di non essere né uno e né l’altro, ma di essere un disertore. Così avevo trovato la quadra ai gradi: ogni volta che me ne andavo dall’Italia me ne andavo da disertore e quando tornavo lo facevo da clandestino. Insomma, uno finisce per crederci e si prende la responsabilità di scriverci un romanzo e ci mette pure più di vent’anni. Però non ho mai capito una cosa sulla pratica della diserzione: uno dev’essere per forza un soldato, appartenere a una compagnia, a un battaglione, una legione, un esercito, a una patria, per disertare? Nel mio caso alla repubblica delle lettere? E quando si può dire di essere disertori professionisti? Quando si passa un confine, anche figurativo, nel senso che si abbandona quella cosa lì che è l’uniforme?

Il tenente Dumont, protagonista del mio romanzo, si confessa e spiega che in un primo tempo non si è ancora disertori, si può essere usciti dai ranghi, aver gettato l’uniforme, ed essersi allontanati, in salita o discesa, profondamente, ma a quello stato delle cose si è ancora sbandati. Disertore, dirà il disertore Dumont, è qualcosa di più serio, è un grado, un marchio, e lo sarà per sempre. Uno quella cosa lì dovrebbe farsela incidere sulla pelle e un giorno gliela scriveranno sulla pietra. Tenente Dumont, chasseur, disertore. Quanto a me, non ho ancora accennato a una cosa importante, una domanda che mi faccio spesso. Cos’è che può spingere un essere umano alla diserzione? Non quando si sbanda, si inciampa e ci si rimette in riga, non quando si commette un’infrazione per «assenza non autorizzata», e neppure in occasione dell’estrema conseguenza, quando si diserta per passare al nemico.

Ma quando è che si diserta spinti dal sogno? I miei disertori lo faranno o avrebbero voluto farlo un anno prima di disertare davvero durante la battaglia di Marengo. Decidere per il grande passo quando erano ancora in Africa, circondati dalla peste di Akkon e Jaffa, eccitati dall’uso dell’hascisc, spaventati dal deserto. Ecco, un deserto. Sabbia, o giungla (dove le precipitazioni superano il metro e i rampicanti hanno funzioni desertificanti per eccesso di vita), paludi, boschi sterminati di mattoni e rovine, il crollo di terrazze come da me in Liguria.

Deserto significa molte cose, può essere un luogo privo di acqua dolce in superficie e può essere solo acqua. Un deserto caldo e un deserto freddo. I miei disertori napoleonici, di nuovo loro, il capitano Lemoine e il basco Urruti, più un sognatore come il tenente Dumont, ci ragionano e trovano (certo ci gioca la traduzione nella loro lingua) che se al posto del disertore si dicesse desertore funzionerebbe meglio, almeno nella sua più lirica accezione.


da Il cannocchiale del tenente Dumont, L’orma editore, 2021

Prima bozza di una lettera scritta a Dominique Larrey, mai inviata

Albissola, verso sera

Logicismo: se cercano un imbarco puntano Genova, non Port Maurice. Perché credere dunque che proseguiranno fin là?

P.M. dev’essere la chiave per qualcos’altro. Per cosa lo scopriremo. 

Mi suggerisci di ragionare da disertore. In effetti non faccio altro. Sulla quotidianità paesaggistica: visita al mare come si visita la villa in cui s’alloggerà d’estate. Indeciso se stabilirmi ad Albissola o a Varazze, dove sarei più vicino a Genova. 

Riflessioni durante la funzione nella chiesetta accanto alla sontuosa villa Gavotti. Mistero intorno alla parola «paradiso», che il sacerdote ha menzionato diverse volte. Sostenere che non hanno diritto all’eternità i non cristiani, questo è opinabile, ma le vite sbocciate per volontà puramente geografiche, le creature non create per caso o perché i figli erano troppi, quelle vite che non vivranno mai, non avranno, al di là del recinto dal quale non l’abbiamo tolte, il diritto all’esistenza? Osare l’eternità, visto che siamo nati e il mondo inizia sempre poco fa… La diserzione del disobbediente, un bisogno di restare senza mai esserci stati, di tornare senza mai essere partiti, di fare qualcosa quaggiù, su questo mare o sui moli di Haarlem, per dire non me ne vado, non io. 

Ragionamento-esercizio del disertore, con possibilità di confessione dopo il vespro. Padre, sono lo strumento di un esercito. Un medico presuntuoso e vanitoso.

A muovermi sono 1/4 di virtù e 3/4 di vile ambizione.


Marino Magliani è ligure, di una vallata del Ponente, ma ha quasi sempre vissuto all’estero. Scrive sceneggiature per graphic novel, un esempio è quella da Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi, o da La luna e i falò di Pavese, con il disegnatore Marco D’Aponte. Traduce autori ispanoamericani come Roberto Arlt e Haroldo Conti, Pablo d’Ors. E scrive racconti e romanzi, generalmente di ambientazione ligure o olandese, che sono tradotti in alcune lingue e hanno ricevuto diversi premi. Vive in Olanda, sulla costa, ogni tanto torna in Liguria, dove possiede ancora qualche uliveto di dubbia resa.


Di parola in parola è una rubrica a cura di Emanuela MontiDalla nota introduttiva è possibile scaricare l’archivio della rubrica, uscita fino al 2019 in forma cartacea nella rivista «Qui Libri».