Culturificio
pubblicato 2 anni fa in Di parola in parola

Feritoia – Giorgia Tribuiani

ovvero della trasfigurazione del dolore nell’arte

Feritoia – Giorgia Tribuiani

La scrittrice Giorgia Tribuiani ci parla di “feritoia”, una parola etimologicamente sorella di ferita, di cui rappresenta il volto luminoso.


«La ferita, nell’arte, è feritoia».

Stavo intervistando l’artista Tiziana Cera Rosco – a quel tempo studiavo per conoscere i “dietro le quinte” della performance art e portarli nel romanzo al quale stavo lavorando, Blu – quando le sentii pronunciare queste parole, la ferita nell’arte è feritoia.

«Che cosa intendi?»

«Che devi cercare dove fa male: è lì che puoi trovare ciò che ha senso portare nella performance art.»

La ferita è feritoia.

Ferita-feritoia.

Fino ad allora non avevo mai stretto tra le mani un’espressione così precisa, così esatta, per parlare di cosa l’arte significasse per me, di dove si collocasse. Avevo sempre creduto nell’importanza di fare i conti, scrivendo, con una materia incandescente; con qualcosa di cui, per dirla nel più semplice dei modi, “mi importasse davvero” – emblematica è la famosa domanda che mi rivolse Giulio Mozzi quando ci conoscemmo: «ma tu perché vuoi raccontare queste storie? cosa ti interessa di queste storie?» – ed ero giunta alla conclusione che l’arte, per me, salvifica o meno, fosse la possibilità di trasformare il dolore in bellezza, di fargli abbandonare la propria sterilità per renderlo utile a qualcuno.

In Guasti, il mio primo romanzo, è la protagonista Giada a far passare questo concetto attraverso il monologo principale del libro: l’arte può prendere il dolore, inutile o immeritato che sia, per trovargli una posizione, o addirittura una giustificazione. Nell’arte abbiamo la possibilità di trasformare qualcosa che ci è accaduto e dargli nuova vita, reinventare la storia affinché abbia un senso o trasfigurarla perché diventi più “vera” (vera nel sentire, più che nella rispondenza ai fatti autobiografici) e perché parli alla storia di qualcun altro.

La vedevo, insomma, la ferita. Ma fu la seconda parte della frase, la feritoia, così accostata alla prima, a colpirmi.

Secondo la Treccani, la “feritoia” è una «apertura praticata nelle opere fortificate o nelle piastre di corazzature dei forti e dei carri armati, attraverso la quale il difensore può fare uso delle armi rimanendo al coperto». Mi piaceva, e mi piace tuttora, l’idea di vedere la ferita come uno spazio dove infilarsi – con dolore, certo, ma in fondo fare arte ha a che fare con la passione, e la passione rimanda tanto all’amore ardente quanto alla sofferenza – per poi avere a che fare con l’esterno, per “mandare nel mondo” qualcosa che viene da quello spazio interno.

Ma la seconda accezione del termine “feritoia” mi piace forse anche di più: «apertura per dar luce alle cantine». Mi pare che in questa ci sia un’intenzione. Ci vedo un certo tipo di fine: quello di portare, attraverso l’apertura, una luminosità.

Mi rendo conto che qui entriamo nella mia personalissima posizione nei confronti dell’arte, ma per me, per come riesco a concepire la creazione artistica, è difficile immaginare di lavorare a un’opera nella quale non ci sia una qualche luce; nella quale non venga messo in campo dell’amore. E questo, specifico, non significa essere alla ricerca di un lieto-fine, né tantomeno voler produrre opere consolatorie (queste ultime fatico ad apprezzarle anche da fruitrice). Credo lo spieghi bene David Foster Wallace in una delle sue interviste, parlando dello scrivere:

«Mi sembra che la distinzione fra grande arte e arte mediocre sia nasconda nello scopo da cui è mosso il cuore di quell’arte, nei fini che si è proposta la coscienza che sta dietro il testo. Ha qualcosa a che fare con l’amore. Con la disciplina che ti permette di far parlare la parte di te che ama, invece che quella che vuole soltanto essere amata.»

E così immagino queste cantine appartenenti ai lettori o agli spettatori o agli ascoltatori, le immagino buie, fatte di vecchi ricordi ammucchiati, di odori troppo forti, di angoli annebbiati dalle ragnatele, che di anni ne sono passati tanti dall’ultima volta, queste cantine degli altri, dicevo, mi immagino che l’artista possa guardarle attraversando le proprie ferite-feritoie, sentendo dove il sangue e il dolore pulsano di più, e attraverso queste, grazie a un vissuto che sa parlare con altri vissuti e che può essere trasfigurato, finalmente rischiararle.

Ed è questo che l’arte rappresenta per me, come il concetto di “feritoia” mi ha aiutato a capire: seguire le ferite, trovare gli spazi giusti e provare a fare un po’ di luce nelle cantine degli altri.

Ovviamente, come accade nel passo qui di seguito, prima di dar luce a una cantina è necessario scendere le scale e scrutare l’oscurità:


da Blu, Fazi editore, 2021

«Sei prigioniera, Blu, in un sacco di plastica. Ginevra prigioniera di Blu; Blu prigioniera di Ginevra, che se non viene fuori non puoi uscire dal sacco, così dice Dora, ma lo sa, lei, Dora, che se per caso la zip non si aprisse tu rischieresti di morire nel sacco? lo sa, Dora, che se dai fori non dovesse passare altra aria, Blu, rischieresti di morire nel sacco? Perché l’aria ti manca, Blu, sai che è così. Mentre tocchi la plastica trasparente, mentre Dora ti dice Ginevra, vieni fuori, parlaci di come Blu ti ferisce, nella performance la ferita è feritoia, non sa, Dora, che tu stai per morire. Non sa che tua madre sta per morire. Non ci pensi, Blu? Le chiamate, lei che ti cerca, che spira piano piano e non sa dove sei. Sei cattiva, Blu. Sei cattiva e ferisci Ginevra, così dice Dora, e tu vorresti rispondere e non riesci, ma in fondo non importa perché tra non molto, Blu, soffocherai.

Morirai, Blu, perché nella tua vita sai fare solo il male.

Chi fa solo il male, nessuno lo tirerà fuori.

Dai buchi non passerà l’aria, e nessuno ti tirerà fuori.

La zip non si aprirà, e nessuno ti tirerà fuori.

Nessuno, Blu, si accorgerà di –

– e allora aprila tu: tu per prima. Dimostra che puoi uscire. Lascia il sacco. Alzati in piedi. Raggiungi lo scatolone con gli oggetti, come Dora vi ha spiegato, e performa tu per prima. Tu per prima, Blu, la più giovane, diciott’anni e già performer. Tu che vuoi uccidere Ginevra; tu che vuoi uccidere tua madre: guardati. Lo specchio: guardati. La vedi Ginevra? Blu, la vedi più Ginevra? Riesce a uscire, ancora, Ginevra? »


Giorgia Tribuiani è nata nel 1985 e vive a Pescara.

Laureata in Editoria e giornalismo, ha collaborato con testate giornalistiche e agenzie di stampa locali e nazionali (Ansa) e curato la comunicazione online per le multinazionali Honda, Ducati e Polar.

Attualmente lavora come docente di scrittura creativa presso la Bottega di Narrazione di Giulio Mozzi.

È autrice dei romanzi Guasti (Voland, 2018), Blu (Fazi Editore, 2021) e Padri (Fazi Editore, 2022).


Di parola in parola è una rubrica a cura di Emanuela MontiDalla nota introduttiva è possibile scaricare l’archivio della rubrica, uscita fino al 2019 in forma cartacea nella rivista «Qui Libri».