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pubblicato 4 anni fa in Interviste \ Recensioni

“Io canto e la montagna balla” – una recensione e qualche domanda all’autrice

“Io canto e la montagna balla” – una recensione e qualche domanda all’autrice

Poche cose seducono più di un incipit letterario in prima persona plurale. In questo Jeffrey Eugenides e le sue sfortunate vergini hanno fatto scuola, si prestano sempre molto bene per parlare di narrazione collettiva. Verosimilmente, il motivo è che “noi” contiene una moltitudine, è un pronome che chiama comunque un certo grado di partecipazione e coinvolgimento; da lettori, invita a camminare al fianco e a volte alle spalle dei personaggi, a osservare assumendo altri occhi, altre angolazioni.

Per Irene Solà, classe 1990, il parallelo con le Vergini suicide però si ferma qui.

Arrivammo con le pance piene. Doloranti. Il ventre nero, carico d’acqua scura e fredda, e di lampi e tuoni. Venivamo dal mare e da altre montagne, e chissà quali altri luoghi, e chissà che cosa avevamo visto.

Nel narratore nomade e plurale che apre il romanzo Io canto e la montagna balla c’è un piccolo trucco: migranti, gravide di tempesta, a parlare sono nuvole. Raccontano l’arrivo sulle montagne dei Pirenei, che con le sue comunità sparute, i boschi fitti e i fantasmi che li abitano sono insieme sfondo e personaggio.

Io canto e la montagna balla è il secondo romanzo dell’artista e scrittrice catalana, preceduto da Els Dics e dall’esordio poetico Bestia (tradotto da Cecilia Monina per Pequod). Io canto e la montagna balla, la cui stesura originaria è in catalano, è arrivato nelle librerie italiane ad agosto 2020 grazie alla piccola Blackie Edizioni, gemella italiana della omonima casa editrice indipendente spagnola, e si è guadagnato a stretto giro il Premio di letteratura dell’Unione Europea dopo aver ottenuto altri riconoscimenti in patria.

La montagna di Solà è un prisma di voci. Si levano da un territorio isolato e rurale, dissotterrate con la stessa logica e la stessa grazia delle ninnananne o dei proverbi, che nella veste semplice e vaga nascondono una conoscenza calma e antica. La grana del tessuto narrativo è spessa, ma non pesa. Con uno stile denso senza affettazione e periodi brevi, un po’ cantilenanti, pieni di onomatopee, sinestesie, metafore, similitudini in cui si specchia la concretezza del territorio d’elezione («Mia è fatta di un equilibrio come quello della brace, che ti tranquillizza», ma sa anche essere «arrabbiata come una montagna»; «la luce bianca [del mattino, che] bagna tutto come una boccata di latte rigettata»), Solà dà infatti un corpo poetico e musicale alla lingua in prosa, la rende leggera.

Questo vale anche per le piste tematiche: la persistenza di ombre passate e potenze antiche, femminili; la morte e la scomparsa, che non rompono i legami ma li trasportano altrove, danno loro altre fisionomie; la solitudine, la solidarietà, la rete sotterranea che collega gli esseri umani e gli spiriti che coabitano in questo luogo. Ma più di tutto, le suggestioni di un tempo fuori dal tempo, sospeso; quello del racconto orale e della poesia.

Ssshhhhhh. E tutti fecero silenzio, perché eravamo un tetto severo che decideva sulla tranquillità e la felicità di avere lo spirito asciutto. Dopo il nostro arrivo, dopo la calma e la pressione, dopo aver spinto in basso l’aria leggera contro il terreno, scagliammo il primo fulmine. Bang! Come un sollievo.

Probabilmente c’è bisogno di avere un animo un po’ poetico e canterino per apprezzare una scrittura così. Nonostante la forma-romanzo la narratività non è un problema, nel senso che Solà inverte le gerarchie: le immagini, il suono, la lingua poetica vengono prima della parola comunicativa e lineare, così come le vicende strettamente umane occupano uno spazio limitato (a questo proposito si diceva che l’incipit è un trucco). Senza rischiare l’etichetta di realismo magico contemporaneo o di letteratura intellettualizzata, le voci che provengono da uomini, funghi, animali, luoghi, e da tutto ciò che vive sono sullo stesso asse.

Parlare di piste è meno fuorviante che di “trama”, visto che i pochi eventi sono cardinali, ma sempre subordinati a questa idea di orizzontalità e umanità. A partire dalla morte di un uomo, Domènec (andato a provare ad alta voce dei versi «per vedere che gusto e che suono avessero, perché quando si è da soli non si ha bisogno di recitare versi a bassa voce» e polverizzato dal fulmine partorito dalle nubi, che gli piove addosso «rapido come un serpente. Aperto. Come una ragnatela»), Io canto e la montagna balla raccoglie una voce diversa per ogni capitolo, riunendo in un coro le vite di una piccola comunità di montagna, le sue storie private e quotidiane, le sue fiabe e leggende. Domènec, sua moglie Siò, i loro figli gemelli Hilari e Mia sono alcune di queste voci; poi l’amico mezzo gigante dei gemelli, Jaume; le encantades Eulàlia, che racconta le storie, Joana, la più vecchia e la più sapiente, che manda le fatture e sa far grandinare, Margarida, che piange sempre, e Dolceta, che ride; Prim, Neus, la piccola Palomita, Cristina; ma anche la voce del capriolo che Hilari e Jaume vanno a cacciare nel bosco, o la voce del cane di Mia; infine, la voce della montagna.

Il capitolo della montagna rappresenta l’unico indizio di un tempo narrativo – il che è piuttosto paradossale, vista la prospettiva millenaria –, perché taglia il romanzo a metà fra prima e dopo la morte di Hilari, il poeta. Riottosa, nel dire la sua:

«Non mi guardate, lasciatemi in pace».

«Ma non mi fate dire nient’altro. Silenzio. Basta».

«Non mi fate dire che poi, quando mi avrete piantato le radici fino in fondo, quando la vostra tana sarà accogliente, fedele e bella, quando avrete bevuto la mia acqua fresca, quando avrete chiuso gli occhietti e avrete dato un nome ai vostri figli, dopo tutto questo, risuonerà l’urto di una violenza cieca, che è molto più vecchia di me, molto più infinita di me, molto meno misericordiosa di me. E applicherà nuove forze. Sarà ricominciato il movimento. Il disastro. Il successivo principio. L’ennesimo finale. E voi morirete. Perché nulla dura a lungo. E nessuno ricorda il nome dei vostri figli».

La ritrosia della montagna è la ritrosia del veggente. La montagna predice l’oblio e ricorda la finitezza mentre, come in un chiasmo strampalato, gli uomini e soprattutto le donne di questo spicchio di mondo oppongono l’eternità di giochi, storie, ricordi, poesia. Che sopravvivono con leggerezza e ironia agrodolce. Non stupisce che tutti i personaggi siano un po’ poeti:

La poesia è anche gioco. Il poeta deve essere giocherellone. La poesia è una cosa seria, tra le cose più serie che ci siano. Più seria della morte e della vita, più seria di tutto. Una questione profonda e vitale. Per questo il poeta deve saper giocare e ridere e usare l’ironia.

Così come non stupisce che la storia di un luogo solitario e archetipico, dove ci sono streghe che comandano gli elementi, rubano lenzuola e fanno nascere i bambini, e uomini che muoiono tragicamente mentre le donne restano sole, non sia una storia di solitudini e non sia una storia di dolore. Le storie di Io canto e la montagna balla trasmettono, anzi, una sensazione di conforto, di vicinanza e calore. Accanto a Irene Solà si sono materializzati i nomi delle due grandi antesignane catalane Victor Català e Mercè Rodoreta, a cui la scrittrice è stata spesso accostata; ma questi Pirenei hanno anche qualcosa di singolarmente simile all’Appennino magico di Matteo Meschiari, e qualcosa della modalità polifonica, collettiva – “noi” è una moltitudine – con cui Segio Atzeni andava in cerca di Tullio Saba nella Sardegna arcaica di Il figlio di Bakunin. Lo stesso modo di lasciare spazio e ascoltare tutti per amplificare la Storia attraverso luoghi e voci. Su questa falsariga, si potrebbe anche dire che le favolette e le leggende che Solà utilizza nel romanzo inevitabilmente finiscono per avere un’eco calviniana (come nel caso della favola dell’orso, raccontata a Jaume dal vecchio Guifré). Forse è solo che gli archetipi hanno gli stessi accordi in tutte le letterature possibili, cambiano soltanto di timbro.

La storia di una è la storia di tutte. Perché il bosco è di quelle che non possono morire. Che non vogliono morire. Che non moriranno perché sanno tutto. Perché trasmettono tutto. Tutto ciò che si deve sapere. Tutto ciò che si deve trasmettere. Tutto ciò che è. Seme condiviso. L’eternità, leggera. Quotidiana, piccola.


L’incipit al plurale ha una grande forza. Tant’è che ci si mette un po’ a visualizzare che la voce che parla appartiene alle nuvole. Mi chiedo se questa prima voce ti sia servita per osservare meglio il territorio e i personaggi che descrivi, per metterli a fuoco e avvicinarti a loro partire dall’alto.

Una delle intenzioni primarie, o principali, o visive di questo libro, era scegliere un pezzo di mondo – che poteva essere qualunque – e provare a guardarlo, a capirlo, ad andarci a spasso da tutti i punti di vista, le prospettive, le maniere di viverlo che mi fossero possibili. Per questo tutte le voci erano importanti, o per questo quindi mi interessava mettermi dentro agli occhi di un capriolo, dentro gli occhi di un cane, delle nubi, dei funghi, e anche dentro quelli dei morti o delle persone che sono morte in questo luogo, dei fantasmi – o spiriti, come vogliamo chiamarli; e dentro gli sguardi dei personaggi magici o mitologici che si suppone vivano in questo luogo, e anche dentro allo sguardo della propria montagna. Il capitolo delle nubi è stato il primo capitolo che ho scritto. Poi non ho scritto più niente in ordine, però quello è stato il primo, e credo che sia importante, perché avevo molta voglia di uccidere un personaggio con un fulmine, di raccontare questa morte dall’alto, in picchiata; ci ho provato e ho realizzato che si poteva fare, che funzionava. E in più mi sono divertita così tanto a farlo che ho deciso di darmi il permesso di continuare a mettermi in tutti gli angoli e da tutti i punti di vista che potevo.

Dopo la morte di Hilari la generazione che descrivi è costretta a crescere suo malgrado, ad andare avanti nonostante il dolore. Mi sono resa conto dopo un po’ che a partire da questa parte del libro ci sono elementi che ritornano, alcuni simboli animali, come il capriolo, o alcune favole. Pensavi a una rete di rimandi sotterranei, avevi una struttura in mente?

Prima di cominciare a scrivere, di cominciare ogni progetto di libro, quello che faccio è chiedermi cosa desidero imparare, a quali idee voglio dedicare la maggior parte del mio tempo e la mia energia negli anni successivi. Capire che domande voglio fare. Quello che faccio di solito è fare ricerca attorno a cose che mi interessano. Ho realizzato che in questo romanzo desideravo imparare più cose sui processi giudiziari per stregoneria in Catalogna, desideravo fare ricerca meglio o capire meglio le figure delle mujeres de agua, che sono personaggi mitologici, donne molto belle che vivono vicino all’acqua, nei boschi; desideravo anche imparare, o capire un po’ cos’erano, le piogge di animali: nel corso della Storia ci sono stati dei casi in cui sono piovuti pesci, o sono piovute rane, o ha piovuto sangue; e avevo tutto un seguito di cose simili, di interessi miei su cui desideravo fare ricerca. Così è come inizio io: leggendo, facendo domande, e nella misura in cui continuo a cercare continuano ad apparire più interessi, più cose che non sapevo e che desidero diventino una parte del romanzo. Nello stesso tempo vedo chiaramente che storia desidero raccontare e come desidero raccontarla. Non decido mai prima di cominciare come proseguirà il mio romanzo, come inizierà, cosa succederà e come finirà, quali personaggi si vedranno. C’è, dunque, una parte molto importante di gioco – intendendo il gioco come una cosa molto seria – e anche una parte importante di sorpresa, di istinto, che coesistono affianco all’altra parte di ricerca e di riflessione.

Ovvio, poi c’è un lavoro da autrice una volta che hai già chiarito queste idee, una volta che stai già iniziando a scrivere, dove arrivi a scegliere una struttura, come dici, e succede che tutte le parti del romanzo formino un’unica cosa, che storie che appaiono all’inizio strizzino l’occhio a storie che si racconteranno più tardi e si costruiscano quindi collegamenti fra tutte le parti e tutti i personaggi.

Le montagne dei Pirenei sono i tuoi luoghi d’origine? So che hai fatto delle ricerche in merito prima di iniziare a scrivere, alcune sono menzionate alla fine del libro. Hai attinto anche dalla tua personale esperienza?

I Pirenei non sono il mio luogo di origine, io sono cresciuta in una zona per niente montana, molto piatta. In effetti ho scritto questo romanzo a Londra, stavo vivendo lì in quel momento. Però quello che facevo era venire in Catalogna almeno una volta al mese o una volta ogni due mesi e andare sui Pirenei, per fare ricerca da lì. Ho scelto i Pirenei perché mi interessava un territorio montano e perché nei Pirenei potevo inserire molte delle cose su cui mi interessava fare ricerca: le streghe, come ti dicevo, le mujeres de agua, però anche la caccia o gli incidenti di caccia, e anche il ritiro repubblicano di tutte le persone che sono dovute scappare dalla Spagna dopo che si è persa la Guerra civile – non c’era Franco, che è stato dittatore qui per quarant’anni. E tutte queste storie “mi entravano”, funzionavano in questo territorio. Sì, ho sfruttato racconti o storie della mia esperienza personale e provato a far sì che nel romanzo apparissero molti racconti, folklore, tradizione orale di quella zona. Come scrittrice sto sempre in ascolto, mi interessano molto le storie della gente che vuole raccontarmi le proprie esperienze, così che tutti i personaggi bevono da fonti molto diverse, però sì, vivono cose che io ho vissuto, che io ho ascoltato, che io ho letto, che mi hanno raccontato, che io ho ricercato, eccetera.

Nell’edizione italiana ci sono alcune illustrazioni che accompagnano il capitolo della montagna. Sono disegni tuoi? Sembravano rallentare e dare un respiro in più alla lettura. Nella tua intenzione era questo il loro compito o avevano un altro scopo?

Sì, i disegni sono miei. Per me avevano diverse funzioni: da un lato, quello che faccio in questo romanzo è provare a riflettere intorno alla voce, alla prospettiva, al fatto che tutti noi vediamo il mondo in modi diversi, pertanto tutti viviamo e facciamo esperienza in modi diversi e allo stesso tempo siamo in grado di spiegarlo in modi diversi. In questo “spiegarlo in una maniera diversa” è da dove arrivano per la prima volta i disegni: perché mi sono resa conto che non tutte le cose che impariamo, che diciamo, che ci raccontano, non tutta la trasmissione di conoscenza si fa attraverso la parola, ma c’è molto apprendimento che ha a che fare con il visivo, attraverso quel che vediamo. Per questo motivo mi interessava che nel libro ci fosse anche questo. Che ci fossero anche immagini e non soltanto parole. E in più, il capitolo della montagna mi interessava molto, perché, a un certo punto, ho realizzato che in questo romanzo parlavano tutti, e che per questo motivo anche la montagna doveva parlare. Quando ho iniziato a lavorare con la voce della montagna e ci ho riflettuto, mi sono resa conto che la prospettiva di una montagna deve essere molto diversa da quella di un umano, perché il tempo, l’importanza delle cose e della vita ha un peso molto diverso per una montagna. Una vita umana per una montagna è molto breve, un secondo.

Nel modo in cui costruisci le similitudini si avverte una grande comunione fra gli elementi: «il sorriso tranquillo come il pane», «il sentiero come il tubo dello stomaco della montagna»; la tua scrittura riporta alla concretezza del mondo materiale, eppure il paesaggio che descrivi è pieno di presenze e fantasmi. La tua sembra una scrittura poetica messa in narrativa, credi che sia così?

Il mio primo libro, il primo libro che ho pubblicato è un libro di poesie, quindi sì, posso dire che è scritto così, che mi interessa la poesia. Io ho studiato Belle arti, per cui mi interessa anche molto l’arte contemporanea; in un certo senso mi interessa la visività, mi interessano le immagini e penso di scrivere costruendo molte immagini, però non è solo questo che mi interessa dell’arte contemporanea: mi interessa anche la capacità di riflessione, di ricerca che ti raccontavo all’inizio, del gioco, dell’importanza del processo. Quindi forse ti risponderei questo, che nella mia scrittura la letteratura, le cose che si possono fare con parole e con immaginazione, il linguaggio poetico mi interessano insieme all’arte contemporanea.

Nel tuo romanzo gli uomini muoiono, o si abbandonano alla tristezza. Le donne invece hanno una forza particolare. E anche se è un uomo ad avere il ruolo di poeta, i personaggi femminili hanno il potere di portare avanti un canto attraverso le generazioni (penso alle encantades, a Mia, a Palomita, a Cristina) con integrità e dignità. Le relazioni femminili che descrivi trasmettono una sensazione di sorellanza, di solidarietà. Questo corrisponde a una tua idea sulla femminile?

Questo è un romanzo scritto dentro la contemporaneità, con uno sguardo critico e con uno sguardo femminista. Nel romanzo c’è sorellanza, e c’è solidarietà, però non credo che sia un romanzo femminista a scapito degli uomini, non è né un manifesto né una bandiera. Però sì, in maniera organica si fanno molte domande, ho sollevato molte domande attorno al tema di chi racconta la Storia, chi ha il potere di raccontare le storie, chi può raccontare la propria storia e chi può raccontare la storia degli altri, che voci ascoltiamo normalmente, che voci sono sopravvissute e ci sono arrivate e quali altre voci no, chi non ha potuto raccontare la propria storia, chi non ha avuto questa possibilità, e chi gliel’ha tolta, anche. E a partire da dove ci hanno raccontato alcune storie, da quale prospettiva, con quale intenzioni, con quale bagaglio, con che preconcetti.

recensione e intervista di Maria D’Ugo