Andrea Talarico
pubblicato 4 anni fa in Interviste \ Recensioni

“L’imitazion del vero” di Ezio Sinigaglia

una recensione e qualche domanda all'autore

“L’imitazion del vero” di Ezio Sinigaglia

Proprio ieri c’è stata una diretta facebook sulla pagina di Scrittori a domicilio in cui Ezio Sinigaglia e Andrea Tarabbia hanno riflettuto su L’imitazion del vero (TerraRossa edizioni, 2020), un testo dal genere ibrido (è una novella e allo stesso tempo non è una novella) che ci ha affascinati fin dal momento della sua uscita. Essendo trascorso un tempo sufficiente per poterne scrivere senza la frettolosità tempestiva che richiede una recensione, dato che L’imitazion del vero è un’opera curiosa anche per via della sua complessità, ci abbiamo ragionato a lungo e soltanto ora, finalmente, pubblichiamo un commento di Andrea Talarico e una breve intervista all’autore (sempre a cura di Andrea).


Un artefice di grandissimo ingegno

Quando, poco più di un anno fa, l’editore TerraRossa ripubblicò Il pantarèi di Ezio Sinigaglia (la prima edizione era uscita per un editore semisconosciuto, SPS, nel 1985, e presto finì nel dimenticatoio), si parlò a ragione di “caso” editoriale. In molti erano rimasti colpiti da Eclissi (Nutrimenti, 2016) e in qualche modo la riscoperta de Il pantarèi, quasi 35 anni dopo la sua pubblicazione, costituì la (tardiva) consacrazione letteraria di Sinigaglia. Oggi, a distanza di un anno, TerraRossa torna a proporre un titolo dell’autore, stavolta per la collana Sperimentali, l’inedito L’imitazion del vero (TerraRossa  2020). Anche in questo caso si tratta di un libro composto negli anni ’80, poco dopo la prima edizione de Il pantarèi, e anche in questo caso le recensioni positive fioccano: il libro ha raccolto da subito una serie di riscontri entusiasti dalla critica. Forse anche troppo.

Le recensioni (quasi sempre positive) non hanno tardato ad arrivare: molte sono acute e ben scritte, altre meno, ma tutte mi hanno dato la stessa impressione: che in un modo o nell’altro si finisse per applicare etichette di comodo per descrivere la forma e la lingua del libro di Sinigaglia, su tutte la definizione di “novella” e la lingua definita “arcaica”, al punto che mi è venuto il dubbio che si stia rischiando di fraintendere l’essenza stessa dell’opera.   

Innanzitutto: L’imitazion del vero non è una novella, almeno, non se il modello di novella che abbiamo in mente è la novella boccacciana, ma andiamo con ordine. I critici mi perdonino se semplifico troppo la questione, gli amatori se la complico oltremodo: innanzitutto, all’opera di Sinigaglia manca un elemento che è caratteristico del genere novellistico, ovverosia la – anche solo relativa – brevità. Prendendo in esame la tradizione letteraria italiana, si fatica a trovare novelle comparabili per lunghezza a L’imitazion del vero: persino le ultime de Le cene del Lasca, che sperimentava volutamente con la lunghezza delle novelle, non giungono a un’estensione paragonabile con l’opera di Sinigaglia. Secondo aspetto: il ritmo narrativo. Un assiduo lettore di novelle, che portino la firma di Boccaccio, di Bandello o di Verga, avrà notato un certo incalzare del ritmo narrativo, e una generale refrattarietà della novella a ogni elemento che non sia strettamente funzionale alla narrazione: non che le sequenze descrittive siano assolutamente bandite, ma la descrizione fisica dei personaggi, degli oggetti e degli ambienti e delle loro caratteristiche quando non è del tutto assente è solitamente ridotta all’osso; non così ne L’imitazion del vero, dove spesso e volentieri queste descrizioni vengono condotte attraverso il ricorso a un vasto arsenale di figure retoriche, su tutte la similitudine, che Sinigaglia sfrutta diffusamente con intento  (spesso ironicamente) liricizzante. Un ulteriore elemento di discrepanza si può osservare nell’interesse del narratore per la caratterizzazione psicologica dei personaggi e la loro evoluzione (in questo senso si potrebbe obiettare che nelle novelle di Pirandello non è proprio così, e io non potrei che concordare, confessando a mio modesto avviso pur chiamandole ‘novelle’ e pensandole come tali Pirandello ha finito per realizzare qualcosa di profondamente distante rispetto a quanto la tradizione ci ha consegnato; ma non ho intenzione di addentrarmi oltre).

Proverò a semplificare estremamente un problema complesso, con tutti i rischi del caso:  nel genere novellistico, il più delle volte il personaggio non è che un “tipo”, un individuo che incarna una determinata caratteristica o rappresenta un determinato gruppo sociale che sia funzionale allo sviluppo della storia: un avaro, un virtuoso, un innamorato, un giovane, un vecchio, un frate, un cavaliere… per quante peripezie attraversi, il protagonista di una novella potrà aver maturato esperienze, aver mutato condizione sociale, ma la problematizzazione dei suoi processi psicologici e della sua evoluzione è fondamentalmente aliena agli interessi del narratore. Un personaggio come Andreuccio da Perugia (Decameron II, 5), tra i più celebri dell’intera opera boccacciana, parte da Perugia senza aver mai visto il mondo e si reca a Napoli per comprare cavalli. In città subisce una truffa e perde ingenuamente i cinquecento fiorini con cui era partito; si ritrova poco dopo coinvolto nella razzia di una tomba e, davanti a un tentativo di raggiro da parte dei suoi complici, non cade nel tranello, e con l’aiuto della fortuna tornerà a casa conservando, impunito, la preziosa refurtiva. Il personaggio è sì maturato, in seguito a un’esperienza, ma questo è quanto.

Le attenzioni di cui godono i processi psicologici e le riflessioni di Mastro Landone e Nerino ne L’imitazion del vero rispondono a un tipo di sensibilità distante dallo spirito novellistico. Passando agli aspetti di natura linguistica, ho letto qui e lì definire la lingua de L’imitazion del vero come “arcaica”: ma la lingua di Sinigaglia è tutt’altro che quella arcaica, se così vogliamo chiamarla, delle novelle di Boccaccio o dei suoi estimatori cinquecenteschi. Le strutture sintattiche (su tutte la paraipotassi) e gli elementi lessicali caratterizzanti la prosa di questo tipo di novellieri sono pressoché sconosciute all’opera di Sinigaglia, e non bisogna fargliene una colpa: l’operazione che conduce Sinigaglia non consiste nella ricostruzione di una lingua boccaccesca (in questo caso dovremmo persino dire, a un esame attento, che l’autore ha compiuto un pessimo lavoro), tutt’altro: quello a cui mira Sinigaglia è il recupero di determinate strutture sintattiche, verbali, avverbiali, preposizionali e lessicali che suscitino nel lettore la sensazione di leggere un testo che abbia un sapore di antico, di lontano nel tempo (costruzioni come «E ciò non pertanto non si facevan» (p. 10) rendono subito l’idea di una sintassi lontana da quella moderna; ma ancor più lontane sono, a ben vedere, dalla prosa di Boccaccio, essendo attestate per la prima volta nel Settecento); il risultato è una prosa “arcaicizzante”, semmai, ma soprattutto artificiale, che soprattutto attraverso il ritmo prosodico “imita” (intendendo il verbo nell’accezione che avrà nell’opera, ossia di cosciente falsificazione) la prosa di Boccaccio e, soprattutto, dei suoi imitatori: la prosa de L’imitazion del vero si avvicina molto di più a quella delle novelle settecentesche di Antonio Cesari (che forse è ignoto persino a Sinigaglia, ma che ha in comune con lui il fatto di guardare a Boccaccio e ai suoi continuatori nel comporre le proprie novelle) che a quella di Boccaccio. La funzione di questa lingua arcaizzante, oltre che nel contesto del gioco e dell’esperimento linguistico, va anche collegata, a mio parere, alla materia trattata. Voluto o no che sia, questo tipo di prosa ha anche la funzione di “edulcorare” la materia narrata: un falegname che nasconde i suoi impulsi omosessuali fino a vedere una possibilità di appagamento nel suo giovane apprendista  (nei confronti del quale esercita, se vogliamo, una vera e propria violenza, coperta dall’inganno della botte), assumerebbe ben altri connotati e ci apparirebbe colorata di toni ben più cupi se non fosse per quell’effetto di straniamento garantito dalla collocazione temporale e, soprattutto, dalla prosa di Sinigaglia. La stessa storia, raccontata attraverso strumenti narrativi più convenzionali, non sarebbe altro che la storia di una violenza perpetrata con l’inganno, e susciterebbe nei lettori, con ogni probabilità, sentimenti di indignazione, rabbia, compassione a seconda della sensibilità. Eppure, attraverso i filtri applicati da un narratore capace come Sinigaglia, noi leggiamo una “novella” che ci intrattiene e ci diletta, perché no. Ѐ questo l’impatto sulla ricezione di una storia di una narrazione ben congegnata, dove anche la sola veste linguistica può risultare determinante per indirizzare la prospettiva del lettore.       

Dopo tutta questa tirata, è il momento di tirare le somme: che cos’è il libro di Sinigaglia, alla fine? Non una novella, sicuramente. Un’opera sperimentale come questa presenta giocoforza una forma ibrida, dove l’ambientazione e il ritmo narrativo ricordano una novella boccaccesca mentre la caratterizzazione dei personaggi e l’impalcatura narrativa sono più vicini a quelli di un romanzo breve – o di un racconto lungo (qui vi assicuro che il confine se possibile è ancora più sottile) – , e il risultato è una forma narrativa che presenta caratteristiche peculiari di tutti questi generi sopra menzionati, senza però rientrare interamente in nessuna di queste categorie. E fin qui mi sono arrampicato sugli specchi; ma alla fine questa forma funziona? L’imitazion del vero è un bel libro? Ecco, io personalmente trovo che questo tipo di sperimentazione, condotto da uno scrittore come pochi ne abbiamo avuti nel nostro millennio e attraverso un esperimento piuttosto singolare (Giuseppe Rizzi, nella sua interessante recensione uscita su «Il Rifugio dell’Ircocervo», ricorda a ragione che un esperimento simile è stato condotto, in anni vicini alla composizione del libro di Sinigaglia, da Michele Mari nel suo Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, Longanesi 1990), abbia nel suo tentativo di sperimentazione su diversi piani – lunghezza dell’opera, prosa arcaizzante e artificiosa, approfondimento psicologico di personaggi romanzeschi immersi in un contesto che la nostra tradizione tende a riconoscere come novellistico – il suo punto di maggiore interesse ma anche il suo punto più debole. Rispetto alla costruzione magistrale di un’opera come Il pantarèi, ma anche rispetto a Eclissi, mi pare che L’imitazion del vero difetti un po’ della capacità di intrattenere il lettore dall’inizio alla fine, come se, dopo il piacevole stupore iniziale, la veste linguistica e il ritmo narrativo perdessero progressivamente la loro efficacia, finendo per dare un’idea di piattezza. D’altro canto, questo giudizio da parte mia è un po’ severo e va detto che un libro del genere è qualitativamente superiore – e non di poco – alla media della proposta editoriale contemporanea e in fondo, diciamolo, anche a Boccaccio non è che le opere siano venute tutte bene.     

Saluto i pazienti lettori con queste splendide righe del romanzo di Sinigaglia, che faranno scendere una lacrimuccia ai più affezionati lettori di Calvino:   

Stava Nerino presso il tavolo assiso, coi disegni e cogli arnesi del mestier loro tutt’intorno disposti, la nera testa sul braccio posata. Al quale spettacolo Mastro Landone da soavissima pietà fu colto e, in quell’amor delle macchine un figlio più vero assai riconoscendo di quanto la carnal prole solitamente non sia, senza destarlo, fra le braccia dolcemente lo prese e fra le braccia dolcemente in quella casa dove sempre solitario vissuto aveva com’un figlio seco lo portò. Onde così, com’il padre ed il figlio, in un amor che certo dirittamente dalla misericordia e dall’onnipotenza d’Iddio discendeva, il gigante biondo ed il fanciullo nero da quella notte lietamente vivevano. (p. 101)  



Le è capitato, in altra sede, di riferirsi a L’imitazion del vero come a una “novella”, ben sapendo che ciò che ha realizzato è molto lontano dalle caratteristiche tradizionali del genere. A cosa è dovuta questa scelta?

È il titolo stesso a spiegare la necessità, da parte mia, di parlare di questo testo come di una “novella”. L’imitazion del vero è – appunto – l’imitazione di una novella, che afferma di essere tale in vari luoghi, ad esempio a p. 8 («Al tempo in cui la novella nostra piglia principio»), a p. 29 («donde codesto soltanto la novella può dire»), a p. 81 («è tempo ormai» che «la novella nostra faccia ritorno»). Che ne sarebbe della mia imitazione, se fossi io il primo a farmene gioco, affermando ad esempio che L’imitazion del vero è un romanzo, un romanzo contemporaneo a tutti gli effetti, che prende origine da una profonda, instancabile riflessione sulla forma romanzo? Parlare della “nostra novella” è per me un espediente mimetico, come – si parva licet – parlare del “nostro anonimo” per il Manzoni. O, più sottilmente, come per Mastro Landone parlare di “macchina del piacere” a Nerino, e più tardi, per Nerino, parlare della stessa “macchina” a Petruzzo.

Sempre in merito a L’imitazion del vero, quel che colpisce a primo impatto è sicuramente l’aspetto linguistico. Come ha realizzato la lingua che ci troviamo a leggere (ha seguito un criterio, ha guardato a dei modelli, si è aiutato con dei dizionari, con l’uso dell’orecchio, si è affidato alla memoria)? Che effetto pensava di suscitare nel lettore con questo espediente? Si è posto il problema di rischiare, così facendo, di rendere il libro “difficile” per i potenziali lettori?

Su quest’ultimo tema – quello della facilità versus difficoltà di lettura – ho posizioni molto precise, anche se forse in apparenza contraddittorie. Da una parte, infatti, detesto l’idea, oggi dominante nel mondo letterario e editoriale, che gli scrittori debbano nutrire i lettori come galline, sempre con lo stesso mangime facilmente digeribile che si tradurrà poi nelle proverbiali uova d’oro: è palese ai miei occhi come andare incontro ai gusti del pubblico sia l’esatto contrario di ciò che uno scrittore degno di questo nome dovrebbe fare, perché significa, né più né meno, farsi complici di chi, la letteratura, la vuole assassinare. D’altra parte ho sempre nutrito una certa insofferenza per gli autori illeggibili o eccessivamente ardui. La lettura, per me, dev’essere un’attività di grande impegno ma anche di sommo piacere. Un po’ come l’erotismo, se vogliamo. Ed è sulla base di questo apparente ossimoro che ho sempre cercato di regolare il mio rapporto (tanto più astratto in quanto sono stato per tutta la vita uno scrittore inedito) con il lettore. Ecco perché, quando ho progettato L’imitazion del vero, non ho immaginato di adottare una lingua veramente antica, ricalcata sul modello di un autore specifico o anche solo di un preciso giro di anni. Una scelta di questo tipo non sarebbe stata soltanto contraria ai miei gusti e alla mia natura poco disciplinata, ma avrebbe prima di tutto reso inutilmente difficile (e per giunta soporifero) il lavoro del lettore. Il mio intento era quello di costruire un testo che suonasse antico, ma che fosse comprensibile senza troppa difficoltà al lettore di oggi: un italiano contemporaneo, modificato in alcuni tratti decisivi per apparire arcaico. Per ottenere questo impasto (non meno illusorio e artificiale delle macchine costruite dal protagonista) mi sono affidato pressoché esclusivamente all’orecchio e ho lavorato senza eccessi (soltanto con alcune scelte puntuali) sul lessico, con attenzione estrema invece alla costruzione sintattica della frase e, soprattutto, alla prosodia e all’incantamento che ne poteva derivare. La prosodia del resto è, fra le varie componenti della lingua scritta, quella su cui, da sempre (cioè sin dal tempo del Pantarèi), lavoro con maggiore accanimento.

Leggendo (in ordine di pubblicazione) Eclissi, Il pantarèi e L’imitazion del vero, opere molto diverse tra di loro, ho notato una sorta di fil rouge nella centralità di un elemento astronomico, rispettivamente: l’eclissi (ovviamente), il buco nero e, più nascosto, il sole a cui è paragonata la botte: «giravano, siccome intorno al sole i pianeti, le vite di Mastro Landone e Nerino intorno al Sol della botte» (p. 30). Scelta consapevole o pura coincidenza?

Un certo interesse per l’astronomia, o forse più semplicemente una fascinazione per il cielo notturno, fa parte del mio patrimonio culturale e affettivo insieme. Dell’impressionante erudizione astronomica di mio fratello bambino parlo diffusamente in H come Humour, un testo pubblicato l’anno scorso sulla rivista online «L’ircocervo» come racconto autonomo, ma tratto in realtà da quello che sarà presumibilmente l’ultimo dei miei inediti a vedere la luce, l’autobiografico Sillabario all’incontrario. La passione di mio fratello si trasmise all’intera famiglia e diede luogo, fra l’altro, a un viaggio invernale nella Liguria di Ponente per assistere all’eclissi totale di Sole del 1961, radice remota (ma ancor viva, evidentemente, nel 2014) di Eclissi. Non è quindi troppo sorprendente, in fondo, che i corpi celesti abbiano una presenza così significativa nella mia opera. Ogni scrittore ha i suoi modi (o forse dovremmo dire i suoi trucchi) per entrare in comunicazione con il trascendente, anche in un’epoca come la nostra che nutre per gli dèi una così tenace e certo non ingiustificata diffidenza. Ecco spiegato dunque in poche parole quel fil rouge cui lei fa riferimento e che senza dubbio tesse nel Pantarèi e in Eclissi le sue figure più esplicitamente astronomiche. L’imitazion del vero è un caso diverso: in questa storia ambientata in un passato imprecisato ma comunque remoto, Dio è ancora presente, almeno nella coscienza dei personaggi, soprattutto in quella tormentata del peccatore e “mago” Mastro Landone. Il mistero del cielo notturno come elemento trascendente può forse emergere nel lungo dialogo di Nerino con la luna (pp. 37-39). Per Mastro Landone invece le stelle sono oggetto d’imitazione, una delle tante “imitazioni del vero” che fanno la loro comparsa nel racconto: fra le macchine inventate dall’artigiano ce n’è una (p. 5: siamo all’incipit stesso del romanzo) che fa «apparir sul soffitto tutto il cielo stellato», e molto più tardi, proprio alla svolta decisiva del suo percorso d’inventore, quella che lo condurrà alla costruzione del Nerino di legno, sono proprio le stelle a venirgli in soccorso con una similitudine illuminante (p. 90: la soave bellezza del fanciullo non è una bellezza figée, ma trae nutrimento «da quella virtù appunto che instancatamente, siccome nel notturno cielo le stelle, tutte insieme e ciascuna pel suo tratto le parti di Nerino moveva»). Il passo che lei cita è certo reso a sua volta possibile da un’infarinatura in materia di astronomia (parlare di “cultura astronomica” sarebbe davvero grottesco, nel mio caso), ma scaturisce da un gioco differente: un gioco a rimpiattino, fatto di indizi ben dissimulati, che a me piace giocare qua e là con il lettore. Parlare di pianeti che girano intorno al sole, infatti, significa rendere meno imprecisato il remoto passato in cui la “novella” finge di essere stata scritta. Questa piccola frase ci fornisce se non altro una datazione de quo: dopo Copernico, quanto meno (ma – a voler essere realisti – parecchio più in qua: dopo Galileo, come minimo).

In seguito all’insuccesso della prima edizione di Il pantarèi ha detto di aver continuato a scrivere per necessità individuale, rifuggendo l’idea di pubblicare (almeno nell’immediato) i suoi lavori. Scrivere senza avere in mente una destinazione editoriale ben precisa influenza le scelte stilistiche e tematiche? E in che modo va a modificare la pratica della scrittura (intesa come processo creativo)? Infine, posto che sia possibile scrivere senza un preciso progetto editoriale, è possibile invece scrivere senza definire un lettore-tipo? Scrivere senza velleità di pubblicazione influenza la selezione del pubblico di lettori ideali? Se sì, come?

Questa domanda investe una tale quantità e complessità di temi che, sulla sua base e sotto il suo pungolo, potrei scrivere un romanzo autobiografico imperniato unicamente sul mio destino di scrittore inedito o, in alternativa, un lungo saggio sul complesso rapporto che lega l’uno all’altro i due grandi protagonisti della letteratura, cioè l’autore e il lettore, e sulla mediazione manipolatoria che l’editore esercita, temporibus nostris, sopra questo rapporto. Devo quindi distillare da un potenziale Nilo o Mississippi filosofico-letterario una piccola pozzanghera auto-esegetica. Ho già spiegato altrove come la mancata pubblicazione a tempo debito del Pantarèi sia stata un’immeritata disgrazia per la mia vita lavorativa e una benedizione per il mio percorso di scrittore. Dal momento stesso in cui decisi di non cercare più un editore, divenni un uomo libero, che poteva scrivere quel che voleva. E fu quel che cominciai (o meglio continuai: per la verità avevo cominciato già con Il pantarèi, pagandone lo scotto) a fare. L’imitazion del vero fu il primo frutto di questo nuovo status. Fino a pochissimi anni fa ero rimasto convinto che non avrei mai più pubblicato un romanzo vita natural durante, ma questo non mi ha impedito di concepire progetti editoriali postumi. Tutto è proceduto come se avessi un editore-mecenate impaziente di pubblicarmi. Il fatto che questo editore non esistesse nel presente ha influito su due soli aspetti della mia produzione: la quantità, limitata almeno in parte dalla mia necessità di lavorare (e molto!) per campare, e la rifinitura finale. Non trovandomi mai nell’urgenza di approntare una versione definitiva dei miei manoscritti in vista della loro pubblicazione, li ho lasciati a lungo in uno stato che definirei di “apparente perfezione”. Ora succede che mi debba occupare della loro rifinitura, un po’ alla volta, a mano a mano che si presentano le varie occasioni e scadenze editoriali.

Ha accennato in diversi luoghi alla notevole quantità di inediti che ha accumulato nel corso degli anni. Mi incuriosisce in particolare il romanzo Fifì, Sciofì e l’Amor, cui si è sempre detto molto affezionato (se non sbaglio sono stati pubblicati anche brevi estratti dell’opera, tra cui un frammento in ottave). Ѐ in cantiere un progetto di edizione di quest’opera? E in generale, può dirci qualcosa di più sulle sue opere inedite?

Come dicevo poco fa, gli inediti che si sono accumulati in vari lustri di libero esercizio della mia accidentata professione di romanziere non sono tanti quanti sarebbero stati probabilmente i miei libri se Il pantarèi avesse avuto, a suo tempo, il successo che meritava. I romanzi che restano da pubblicare sono tre o quattro, più naturalmente quelli che riuscirò (se ci riuscirò) a scrivere in futuro. Il romanzo cui ho lavorato (per parecchi anni) sotto il titolo di Fifì, Sciofì e l’Amor uscirà per TerraRossa con un altro titolo, Fifty-fifty, e in due “parti”. Di questo ampio romanzo sono in effetti usciti parecchi assaggi. Quello cui lei fa riferimento è stato pubblicato sulla rivista «Fronesis» nel 2014 ed è un episodio che contiene un pastiche in ottave (ne è protagonista il Rinaldo della Liberata). Altri estratti sono usciti nel 2018, uno su «Nuovi argomenti» e uno su «Nazione indiana», e uno nel 2019 in volume (nell’antologia Polittico, curata da Francesco Borrasso per Caffèorchidea). A un altro mio inedito ho accennato all’inizio di questa nostra conversazione: è Sillabario all’incontrario, una suite di quadri narrativi articolata in 21 capitoletti, uno per ogni lettera dell’alfabeto (andando però come i gamberi, dalla Z alla A). Poi c’è un romanzo breve o racconto lungo comico-drammatico (il terzo dei miei “centopagine”, dopo Eclissi e L’imitazion del vero), Grave disordine con delitto e fuga. E volendo, post mortem, c’è una collezione di incompiuti, un migliaio di pagine che ho beffardamente riunito in un volume intitolato Si minore (un gioco di parole, ma anche un omaggio a Schubert, il genio che amo più di ogni altro). E infine mi piacerebbe prima o poi pubblicare anche la mia – molto limitata – produzione poetica.

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