Culturificio
pubblicato 11 mesi fa in Di parola in parola

Paura – Andrej Longo

i mille volti della pavidità

Paura – Andrej Longo

Lo scrittore Andrej Longo ci parla di paura, impalpabile minaccia che governa le sue storie


Paura. È questa la parola che si aggira silenziosa, quasi invisibile nelle storie che racconto. La paura non la puoi toccare con la mano. E neppure la puoi annusare. La paura è impalpabile, eterea, e al tempo stessa concreta, minacciosa. Paura di “essere sparati” per uno sguardo sbagliato, paura di ribellarsi ad un sopruso subito, paura di vestirsi in maniera diversa, perché la diversità fa nascere il sospetto, e dal sospetto germoglia la paura.

Nel sud che attraversa i miei racconti, la paura è atavica e difficile da scardinare. Perché ha il sapore antico della violenza, del sangue, della sopraffazione, e si ciba dell’assenza, o meglio dell’inutile presenza, di chi dovrebbe proteggere e garantire il rispetto delle regole, quanto meno di quelle della convivenza civile. Come il caldo della controra che taglia il respiro e appesantisce il passo, così la paura soffoca la libertà e il possibile cambiamento, e distrugge la bellezza dei luoghi e delle anime, riducendo la vita a mera sopravvivenza.

«Ma che r’è, tieni paura?». È questa la domanda che fa nascere in Genny, il giovane protagonista de L’altra madre, la voglia di dimostrare che lui non ha paura di niente. Perché provare paura, in certi contesti, è una condanna certa alla derisione e alla sottomissione. Bisogna apparire forti e spavaldi già da bambini, imparare presto le regole che governano quel mondo, bisogna dimenticare la paura, esorcizzarla, e se si prova comunque paura, occorre nasconderla.

L’unica paura accettata è quella che provano le mamme per i loro figli, paura che spesso, però, resta pensiero che non si trasforma in azione, e che perciò non basta a evitare un destino che per molte di quelle madri è una condanna già scritta.

«Ma che r’è, tieni paura?» chiede Salvatore, delinquente già segnato dalla vita, al più giovane Genny. E Genny, che ha paura di mostrare la sua paura, decide di partecipare allo scippo che l’amico gli propone, uno scippo che avrà conseguenze tragiche e che porterà nuove e più inquietanti paure con cui confrontarsi.

Nei racconti Dieci, invece,la paura è meno evidente, e striscia quasi invisibile in ognuno dei dieci racconti, assumendo di volta in volta facce diverse e contrastanti. Nel racconto uno, Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio al di fuori di me, la paura di essere costretto a diventare un soldato della malavita organizzata, è assai maggiore di quella di potersi beccare una coltellata in una rissa in discoteca. Nel racconto tre, Ricordati di santificare le feste, la paura è quella che la vita possa passare senza poterla vivere in tutta la sua pienezza. Nel racconto cinque, Non ammazzare, c’è la paura di un padre che teme di non riuscire a dare al proprio figlio una vita diversa da quella che ha avuto lui. Nel racconto sette, Non rubare, c’è la paura che consiglia di abbassare lo sguardo per evitare di scontrarsi con la prepotenza altrui. Nel racconto otto, Non mentire, la paura induce Nicola ad accettare i compromessi, tanto da confondere la verità con l’ipocrisia.

Nel racconto nove, Non desiderare la donna degli altri, c’è più di una paura da affrontare per ribellarsi a un destino che pare già scritto.

Anche in Mille giorni che non vieni il protagonista Antonio Caruso deve fare i conti con le proprie paure. Paure che non sono quelle di morire ammazzato o di finire in galera. La paura in questo caso è un’altra, vale a dire quella di non riuscire a recuperare l’amore delle uniche persone che per lui contano: la piccola Rachelina e la moglie Maria Luce. Nel corso della storia altre paure compaiono sulla strada di Antonio, paure che non gli impediranno, però, di compiere un gesto semplice ma assai rischioso, che salverà la vita a un gruppo di migranti venuti da lontano e che trasformerà la sua anima in maniera decisiva.

Diceva Paolo Borsellino «Chi ha paura di morire muore ogni giorno. Chi non ha paura di morire muore una volta sola». Belle parole, che purtroppo in Chi ha ucciso Sarah? non bastano a salvare una ragazza che chiedeva aiuto. La paura, infatti, impedisce agli inquilini di una palazzina di Posillipo di uscire dai propri appartamenti per prestarle soccorso.

«Vigliacchi» grida con rabbia Acanfora, il giovane poliziotto che indaga sulla morte della ragazza. «Vigliacchi per niente» ripete con amarezza, rivolgendosi alle finestre della palazzina incriminata dietro le quali s’intravedono le ombre dei pavidi abitanti.

La paura a volte è così radicata in noi da impedirci perfino di vivere la vita. In Solo la pioggia è Ivano a dover fare i conti con questo tipo di paura. Ma dopo molti tentennamenti alla fine riesce a superarla la paura. E durante una memorabile cena con gli amati fratelli dichiara finalmente la sua diversità. E soprattutto il desiderio di mostrarla a tutti quella diversità, senza più paure. Ma la paura che Ivano ha finalmente superato, fa nascere nei fratelli una nuova e inaspettata paura: quella di perdere la stima e il rispetto della gente del paese. E con la stima e il rispetto temono di veder svanire anche il potere che hanno faticosamente raggiunto. E così, mentre la pioggia cade inarrestabile, le paure dei tre fratelli s’intrecciano in un ginepraio sempre più inestricabile, che trasforma la goliardica cena in una tragedia che non lascia scampo.


Da Chi ha ucciso Sarah? Sellerio, 2021

Dentro era così scuro che non si vedeva niente. Metteva pure un poco di paura. Ma non era la pau­ra che ti viene, tanto per dire, un momento prima di fare irruzione dentro a una banca dove ci sta una ra­pina in atto. E tu lo sai che un poco di piombo in fronte te lo possono sempre ficcare. Quella è una paura che si capisce e ci può stare. Qua invece era una cosa diversa. Era come da bambini, quando si entrava in una stanza buia e si pensava che ci stava qualcuno nascosto nell’ombra, pronto ad ac­chiapparti per un braccio o una gamba, o a soffiarti dietro alla testa con il fiato caldo. Ecco, così era in quell’androne. Con il cuore che batteva a mille, la camicia inzuppata di sudore e gli occhi che si sforzavano di abituarsi al buio. Dal fondo ho cominciato a vedere un filo di lu­ce, ma non capivo da dove usciva e mi è sembrato pure che un’ombra si muoveva. Con una mano ho tirato fuori la pistola e con l’al­tra ho allisciato il muro, a cercare l’interruttore. Quando alla fine l’ho trovato, ho premuto e den­tro si è illuminato. Era un androne parecchio grande, con una fon­tana in mezzo, che non cacciava acqua. Dietro alla fontana, giù a tutto, ci stava un’uscita a forma di arco, che portava a un cortile o un giardino. A de­stra, invece, c’era il gabbiotto del portiere, ma senza nessuno dentro. A sinistra ci stavano delle scale di mar­mo, belle larghe. Vicino alle scale, un ascensore con la porta di legno. Tutto questo l’ho notato appena ho acceso la luce. Per vedere la ragazza, invece, ci ho messo qual­che secondo. Stava sdraiata per terra, tra le scale e il portone dove mi trovavo io, con la faccia girata verso il pavi­mento. E stava intorcinata su sé stessa, come una gatta che dormiva. Ma lei non dormiva. Era morta.


Andrej Longo è nato a Ischia, in provincia di Napoli. Ha pubblicato sei romanzi: Adelante, Chi ha ucciso Sarah?, Lu campo di girasoli, L’altra madre, Solo la pioggia e Mille giorni che non vieni. Ha pubblicato inoltre due raccolte di racconti: Più o meno alle tre e Dieci, con il quale ha vinto il Bagutta e numerosi altri premi. Scrive anche per il teatro, il cinema e la radio.


Di parola in parola è una rubrica a cura di Emanuela Monti. Dalla nota introduttiva è possibile scaricare l’archivio della rubrica, uscita fino al 2019 in forma cartacea nella rivista «Qui Libri».