Culturificio
pubblicato 7 anni fa in Altro \ Cinema e serie tv

Stranger things e la mercificazione della nostalgia

Stranger things e la mercificazione della nostalgia

Non è un caso che il proliferare di serie tv corrisponda a questo periodo storico, l’era postmoderna del sovraccarico, della dispersione organizzata di informazioni; ma, soprattutto, l’era in cui anche la produzione culturale viene fatta rientrare nella catena di montaggio.
Lo spettacolo come capitale al più alto livello di accumulazione, per dare retta a Guy Debord, la fenomenizzazione compulsiva/compulsata di ogni tendenza o moda o feticismo minimamente diffuso, rielaborato dalla macchina algoritmica del capitale per farne la versione meglio fruibile dal grande pubblico.
L’immagine, il fenomeno, dall’etimo greco: apparizione. L’apparizione, significante puro, viene immediatamente fruita dal grande pubblico, nell’iperveloce mondo virtuale decostruzionista dell’infinita oscillazione del significato, sempre rielaborato, sulla struttura memica della variazione sul tema.
All’immagine, fruita, si permette poi di sopravvivere perpetuando sé stessa, in quest’eterna variazione invariata, su cui si misura il ciclo vitale del fenomeno. Ma una volta esaurito tale ciclo – ecco il problema: la necessità di trovare un nuovo fenomeno, crearne anzi uno, visto che tutto è fenomeno e niente lo è 1.  Non c’è da stupirsi che il capitale abbia scelto la narrazione che più di tutte unisce la postmoderna impossibilità di chiusura del testo con la portata “popolare”: il mondo fumettistico. Una dimensione letteraria quasi fiabesca, nella propria archetipica stereotipizzazione dei grandi conflitti umani, ed estremamente vasta, oltre che ideologicamente inquadrata nella visione americana liberal standardizzata sui valori tipici dell’american way of life2. Non c’è quindi da stupirsi se la tendenza culturale attuale abbia riportato a galla i fenomeni appartenenti a epoche passate, come sono passate le produzioni culturali fumettistiche che ora si riciclano in infiniti-mai-finiti lungometraggi.

È proprio la capacità di saper legare le narrazioni a fare la fortuna del capitale, che, nella veste della Disney, la più grande multinazionale dell’intrattenimento, sta deliberatamente cercando di ottenere il monopolio del merchandising dei vecchi-ma-ancora-validi sceneggiati resi “cult” rimestando nel morboso feticismo culturale che tenta di toccare le corde della rievocazione infantile, anche passando per una mitizzazione dei periodi storici a cui tali sceneggiati appartenevano.
In questo particolare caso, il secondo dopoguerra, specie nei decenni degli anni settanta, ottanta e novanta. Da qui il recupero, o per meglio dire l’esumazione, delle vecchie saghe cinematografiche di successo, ma non solo: di tutti gli elementi caratterizzanti tali epoche, sottoposti a giudizio critico da parte del pubblico e parametrizzati sui gusti del più ampio numero di persone possibili.
Qui si colloca Stranger Things. Una narrazione modellata sui vecchi Twilight Zone e X-Files, incentrata sulla visione dell’infanzia kinghiana e disincantata, cui si aggiunge l’elemento paranormale. Il risultato, qualcuno dice, sembra “scritto da King, girato da Spielberg, musicato da Carpenter”. Ne conseguirebbe che, essendo i tre dei maestri, si tratti di un buono prodotto. Che sia, quindi, un giudizio più che lusinghiero.
Non è così. Quando si formula una frase simile si è nel giusto, ma questo riguarda soltanto gli aspetti estetici e alcuni topoi narrativi che appartengono a un’epoca passata3. Quella, per l’esattezza, del maggior splendore di questi tre artisti. Un’ epoca passata di cui si cerca, attraverso una curata operazione di marketing, di recuperare le suggestioni. Ma di questo si tratta: suggestione, e niente più. Ci troviamo di fronte a una sottile operazione che consiste nel portare la narrazione sempre sul filo del cliché, per poi scartare, frustrando così l’aspettativa di quello che, parafrasando Eco, potremmo chiamare “lo spettatore ideale”. Secondo il maestro, infatti, un’opera (letteraria) è tanto più efficace quanto si dimostra capace di illudere il lettore attraverso la costruzione di frame, situazioni conosciute e prevedibili, per poi frustrarne le aspettative.
Tale definizione è trasferibile sul piano della narrazione seriale, che più di tutte dev’essere capace di intercettare le aspettative del pubblico, ma non solo: anche di anticiparle e frustrarle di volta in volta. Ogni puntata dev’essere esattamente ciò che il pubblico si aspetta, ma non proprio.
Non c’è alcuno spazio per la creatività individuale, che va parametrizzata sui gusti del pubblico, in continuo slittamento, forse lacaniano; una continua, frenetica rincorsa, ad anticipare le tendenze, a creare il nuovo. E qui si colloca ogni supposta autorialità di Stranger Things, nella capacità di recuperare tutti i topoi delle serie televisive fantascientifiche degli anni settanta-ottanta, per fornire quel tanto d’innovazione scrittoria sufficiente a non cadere nel cliché, rendendo il tutto fruibile a un pubblico moderno. Niente di più, niente di meno. La successiva stagione, attualmente ancora non uscita, sarà, stando alle dichiarazioni, più virata verso il genere horror.
La piccola, misurata, indispensabile variazione che regge il gioco, sempre lo stesso gioco: in una delle prime foto rilasciate, è visibile uno dei protagonisti della serie in cosplay da Ghostbuster.


Al momento in cui scrivo, risulta essere estremamente popolare e dunque imitato, un obeso ragazzo del Sud, il quale non fa altro che ripetere, in varie combinazioni, con marcato accento calabrese: “saluta Antonio”, e “Buonasera”. È l’eroe del momento.

Spiderman è l’esempio più classico: il personaggio è diventato noto per la propria incapacità di sfruttare i propri poteri per ottenere denaro in maniera legale, preferendo sordidi incontri clandestini di lotta piuttosto che infrangere la legge per salvare sé stesso e la nonna dai problemi economici che li affliggono, e tuttavia continuando a operare, di fatto, nell’illegalità: a difendere lo status quo del capitale anche dove la legge non può e ufficialmente non lo permette ma ufficiosamente lo tollera e lo incoraggia, alla maniera americana.

Ne cito uno: la sessualità libera, l’imposizione edonistica del sesso come sfogo, culminato con la morte del personaggio che a questa morale si oppone: la studiosa, retta, diligente Barb, comprimaria uccisa dalla creatura mentre è fuori in giardino, sola, dopo che le amiche si sono appartate in casa per consumare i rapporti sessuali richiesti insistentemente dai rispettivi giovani partner.

Articolo a cura di Michelangelo Franchini