Culturificio
pubblicato 3 anni fa in Di parola in parola

Mischia – Valentina Maini

Mischia – Valentina Maini

La scrittrice Valentina Maini ci parla di “mischia”, parola che dà il titolo al suo primo romanzo e ne cattura l’essenza. Qui un’intervista all’autrice apparsa sul culturificio qualche tempo fa.


Mescolarsi, confondersi, per me equivale a scrivere. Comporre quella menzogna che serva la realtà; osservare lo spazio che intercorre tra le due, allargarlo e ritrovarsi con un grande territorio da esplorare. E per farlo, prima, sprofondare dentro di me, seguire la linea verticale della poesia.

È stata Gorane a suggerirmi la parola, quando il romanzo si muoveva verso la fine. Nel suo sfogo, nella malinconia dell’essere nata in una famiglia senza confini – dove si confondevano i ruoli di genitori e figli, l’amore fraterno e erotico, le identità – quella parola un po’ inusuale si è illuminata. E, per uno strano colpo di fortuna, raccontava tutto il romanzo, intercettandone i fuochi, svelandone in una sola emissione di fiato l’essenza.

Prima che il romanzo uscisse un amico mi ha chiesto se per caso avessi scritto una storia sul rugby. Ovviamente no, gli ho detto. Ancora non sapevo che per molti appassionati il termine riportava immediatamente a una situazione di gioco, «la contesa – attraverso la spinta contrapposta di due formazioni di giocatori legati insieme in tre file per squadra – della palla che viene introdotta nel tunnel comune». Il fraintendimento del mio amico era vero: anche io avevo aperto un tunnel tra due forze contrapposte, i gemelli, li avevo separati a forza e da quello spacco mi ero messa a guardarli. Giocavano, e il gioco era violento. Come immagino sia una partita di rugby.

«Mischia» mi fa pensare al caos, ai grumi, alla luce nell’acqua. Soprattutto penso all’acqua, un’acqua che all’inizio era trasparente. Scrivendo ho sommerso me stessa e mi sono mescolata ad altri. Ci sono romanzi cristallini che sciolgono nodi profondi con meticolosità, in cui lo scrittore si prende la briga di sbrigliare una faccenda che all’inizio forse gli pare oscura. Le mie acque invece erano limpide. Sapevo da cosa partivo, ma non sapevo come far accadere la trasformazione. Così ho costruito vortici, gorghi, correnti gelate attorno a quella prima fossa oceanica che non volevo più vedere, non come l’avevo sempre vista. Avevo bisogno che perdesse i suoi confini e invadesse quelli di un altro che, a sua volta, l’avrebbe violata, obbedendo a uno strano processo osmotico che in molti definiscono più semplicemente «comunicare». Nella parola «mischia» ritrovo anche questo bisogno di invasione, di perdita di sé: quell’indistinto che caratterizza i gemelli. Sapevo che sul fondo di quel nuovo oceano c’era sempre quella fossa, ma nessuno l’avrebbe vista come la vedevo io prima di scrivere, e nemmeno io l’avrei più vista così: a furia di stratificazioni, la scrittura avrebbe modificato per sempre la realtà, anche la mia, che conoscevo tutto. Manipolare i ricordi, dimenticare, ricordare male. La verità sarebbe emersa da quella sovrapposizione di strati menzogneri: come nei gialli, ha il brutto vizio di manifestarsi sempre, trova comunque la sua strada. Ha come una luce speciale, quella delle navi, che si chiama proprio «fanale di mischia» e si accende durante una guerra, per farsi riconoscere dalle flotte amiche.


Da La Mischia, Bollati Boringhieri, 2020

Il bagno profumava di sandalo e muschio bianco. L’odore era così forte che somigliava a un incendio. Mi sono alzata, le ginocchia gridavano. Ho allungato le mani verso mamma che si è appesa alle mie dita, ho pensato che la sua presa somigliasse a quella di un uccello, agli artigli di un falco o di una minuscola bestia primordiale. È rimasta qualche minuto immobile e gocciolante nella vasca, in piedi, sorridendomi appena. Spaventata o interrogativa. L’ho avvolta in un telo pulito e l’ho aiutata a uscire dalla vasca, afferrandole la caviglia destra, alzandola fino al bordo, facendola poi scattare in avanti e riappoggiandola a terra, sul tappeto. […] Mamma non ha mai parlato. Le ho asciugato i capelli per qualche minuto, di modo che l’acqua smettesse di gocciolare. Li ho pettinati e adagiati dietro la testa. Ho preso le forbici, bagnandomi le mani per tenere ferma quell’unica, lunghissima ciocca. Li ho afferrati nel pugno, stretti, e li ho tagliati in un solo colpo, appena sotto le orecchie. Sono precipitati a terra con enorme fragore. Ho completato l’asciugatura, osservando il passaggio dallo scuro al chiaro, chiarissimo. Sono capelli biondi e bianchi. Mischiano giovinezza e vecchiaia, morte e vita in un unico insieme compatto, indivisibile. Mi sono detta: non potrò togliere tutti i capelli biondi per trasformare mia madre in una vecchia. Mi sono detta: non potrò togliere tutti i capelli bianchi per trasformare mia madre in un’amica. Dovrò accettare questa sfocatura, quest’immagine ambigua.


Valentina Maini (Bologna, 1987). Ha conseguito un dottorato in Lingue e letterature straniere e pubblicato racconti e articoli accademici su varie riviste. Nel 2016 esce la sua prima raccolta di poesie, Casa rotta (Arcipelago Itaca) che si aggiudica il Premio Letterario Anna Osti, sezione poesia. La mischia (Bollati Boringhieri, 2020) è il suo primo romanzo.


Di parola in parola è una rubrica a cura di Emanuela MontiDalla nota introduttiva è possibile scaricare l’archivio della rubrica, uscita finora in forma cartacea nella rivista «Qui Libri».