Pasolini e il cinema. Intervista a Paolo Lago

Pasolini e il cinema. Intervista a Paolo Lago

Una primissima domanda, secca, volutamente peregrina: è da poco uscito Nuvole corsare (CaffèOrchidea), a cura di Francesco Borrasso e Giuseppe Girimonti Greco, «un tributo a Pier Paolo Pasolini attraverso i racconti inediti di quindici autori contemporanei», una raccolta per la quale hai scritto una postfazione in cui definisci il libro «una rilettura appunto narrativa (e a tratti meta-narrativa) dell’intera opera e della figura stessa di Pasolini». Di che si tratta?

Nuvole corsare è un progetto estremamente interessante perché rimette in gioco la figura e l’opera di Pasolini a livello narrativo. Nella postfazione ho poi scritto che alla base delle singole opere di Pasolini è presente una fondamentale volontà di narrazione, una vera e propria “narratività primaria” che non si ritrova soltanto nei romanzi, nei racconti, nel cinema o nel teatro, ma anche nelle poesie. Se leggi qualsiasi poesia di Pasolini ci puoi trovare un’impronta narrativa molto importante: il poeta è prima di tutto un narratore che racconta, riflette, elabora dei pensieri e delle sensazioni, appunto, in forma narrativa. Nuvole corsare è una raccolta di racconti in cui Pasolini viene fatto rivivere sotto forma di svariate narrazioni. Alcuni racconti si ispirano all’opera e al pensiero di Pasolini, soprattutto quello “corsaro” degli ultimi anni, che riflette sulla società e sulla politica degli anni Settanta. Ma non manca neppure il primo Pasolini, quello delle borgate e dei “ragazzi di vita”, dell’innocenza dei sottoproletari. Non a caso, nel titolo, la parola “nuvole”, a mio avviso, rimanda proprio a quest’ultimo aspetto (pensiamo al cortometraggio ‘fiabesco’ del 1967, Che cosa sono le nuvole?) mentre l’aggettivo “corsare” riecheggia il pensiero dell’ultimo Pasolini, quello degli Scritti corsari. Altri racconti, poi, trasformano lo stesso scrittore in personaggio della narrazione ma, anche in questo caso, per mezzo di travestimenti immaginari e metacronici. È importante comunque ricordare che Nuvole corsare non è l’ennesimo ‘omaggio’ a Pasolini, la sua ennesima trasformazione in un giocattolo della cultura italiana. È un’operazione intelligente e delicata, alla quale hanno partecipato alcune delle più significative voci della narrativa contemporanea.

Quando nasce questo interesse per Pasolini? All’università qualcuno mi diceva (mi è rimasto impresso): Pasolini è un grande intellettuale, un buon regista, un narratore normale, un poeta discreto. Le parole non erano esattamente queste, il concetto sì. Sei d’accordo?

Il mio interesse per Pasolini nasce quando frequentavo il liceo. Era un periodo di importanti scoperte letterarie e Pasolini è stata una di queste: cominciai con un libro che raccoglieva in forma antologica estratti di diverse opere e poi passai a leggere tutti i suoi libri per intero, che prendevo in prestito in biblioteca. Era il 1991 e frequentavo il terzo anno di liceo (la prima liceo, secondo la vecchia denominazione del classico). Adesso rimango un po’ stupito dal fatto che sono passati più anni dal 1991 ad oggi (ben trenta!) di quanti ne fossero passati dal 1975 (anno della tragica morte di Pasolini) al 1991 (‘solo’ sedici), quando iniziai a scoprirlo. Ricordo come se fosse oggi quei momenti trascorsi nella prima lettura delle sue opere.

Sul fatto che Pasolini possa essere considerato un grande intellettuale sono sicuramente d’accordo. Mi ha sempre colpito la frase che scrive ne Il romanzo delle stragi, negli Scritti corsari: Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Qui si autodefinisce come “un intellettuale” e “uno scrittore” che “cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive”, che cerca di immaginare e mettere insieme i pezzi di “un intero quadro politico” per ristabilire la logica. Ecco, questo dovrebbe essere il compito di un vero intellettuale e Pasolini sicuramente lo era. Per quanto riguarda il “buon regista” non sono molto d’accordo, nel senso che “buon” mi sembra troppo poco. Penso che i suoi film rappresentino uno dei vertici del cinema italiano: non sto parlando tanto dei primi, tipo Accattone e Mamma Roma, che pure sono importanti, quanto invece di lungometraggi successivi come Medea, Teorema, Porcile e Medea. Ecco, secondo me, il suo cinema migliore è questo e proprio per questi film non esiterei a considerare Pasolini il secondo miglior regista italiano di tutti i tempi (il miglior regista italiano in assoluto, per me, è Federico Fellini). Per quanto riguarda il “narratore normale”, secondo quanto abbiamo detto prima, non posso essere d’accordo. Pasolini possiede una capacità narrativa fuori dal comune: la sua scrittura ti trasporta dentro il suo mondo finzionale e non ti lascia più uscire, come preda di un incantesimo. Non solo dentro le situazioni narrative ma anche dentro le atmosfere. Pasolini è un grande creatore di atmosfere, di descrizioni di ambienti e di paesaggi che emergono quasi naturalmente all’interno della scrittura. Come narratore, secondo me, ha dato il meglio di sé con Ragazzi di vita e Una vita violenta, grandi esempi di narrazioni naturalistiche costruite sull’impianto neopicaresco. L’ “infilzamento di avventure”, per dirla con Šklovskij, sembra scaturire quasi naturalmente, la storia sembra sussistere di per sé, senza che si intraveda sullo sfondo la penna dello scrittore. Non sono d’accordo nemmeno sul “poeta discreto”. Secondo me, Pasolini è prima di tutto un poeta, nasce come narratore in poesia. Non si deve dimenticare che le prime prove letterarie di Pasolini sono delle poesie, scritte in friulano, in una lingua quindi molto evocativa e generatrice di sonorità sconosciute all’italiano. Penso che lui stesso si considerasse prima di tutto un poeta, un poeta-narratore. Se leggiamo Le Ceneri di Gramsci, La religione del mio tempo, Poesia in forma di rosa ci accorgiamo che in ogni poesia c’è un piccolo racconto che si srotola sotto forma di viaggio, costituito da diversi incontri che avvengono lungo la strada. Anche nella poesia, secondo me, è quindi presente una significativa impronta picaresca, la stessa che ritroviamo nei due romanzi ‘romani’. Su Pasolini poeta sono d’accordo con quanto disse Moravia al suo funerale: «Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno. Il poeta dovrebbe esser sacro».

Definisci Nuvole corsare come «una cartografia pasoliniana che sottenda alla letteratura contemporanea». Sempre a proposito di geografie letterarie, vorrei farti una domanda su Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini. Edipo Re, Teorema, Porcile, Medea (Mimesis, 2020). Ma prima, anche soltanto per mettere il lettore a suo agio, riporto l’inizio del tuo saggio, sorprendente per la sua efficacia e per la tua capacità di sintesi:

«Il cinema di Pasolini – ma soprattutto i quattro film a cui viene dedicata questa analisi (Edipo re, Teorema, Porcile, Medea) – mette spesso in scena una contrapposizione di spazi: da un lato, ambientazioni di carattere “borghese”, interni di case e palazzi nei quali la stessa classe borghese è condannata ad un funereo silenzio o alla rutilante ripetitività di parole e discorsi, oppure esterni connotati da colori cerei e freddi, tratteggiati in lucide e rigide geometrie; dall’altro, invece, prati di periferia, deserti astorici e mitici appartenenti ad un’Africa ancora non inglobata nel mondo capitalista, lande brulle e desolate dove si muovono personaggi quasi demonici e soprannaturali, “nomadi” portatori di trasgressione. Si può notare una vera e propria dialettica degli spazi: le due tipologie sopra tratteggiate non solo si contrappongono ma tendono ad annullarsi a vicenda. Nella fattispecie, sembra quasi che sotto lo spazio ordinato e geometrico che caratterizza la classe borghese si muova, come un magma tellurico, un deserto barbarico e mitico che promana dalle profondità della coscienza dei personaggi. Sembra che lo spazio cereo e geometrico possa essere annullato da un momento all’altro dall’incedere dello spazio desertico, astorico e atemporale, connotato nel profondo dal mito della barbarie».

Questa è la tua tesi forte: da una parte gli spazi urbani, la borghesia, dall’altra le periferie e il “deserto”, ovvero il proletariato. Naturalmente semplifico e banalizzo, ma mi sembra che questo sia un punto di partenza, il fondo, diciamo, un po’ l’impalcatura del tuo discorso teorico. Il prosieguo del libro prova che non si tratta di una bipartizione così manichea. La prima domanda che vorrei farti però è ancora più generale: a parte Foucault e il suo concetto di eterotopia,e poi Bertrand Westphal, Franco Moretti, Lotman, Bachelard, o forse anche Ricœur (penso per esempio a Urbanizzazione e secolarizzazione), mi chiedevo se in qualche modo la tua analisi non sia influenzata dalle teorie di Michel de Certau (penso soprattutto a L’invenzione del quotidiano). Oppure da Deleuze, che citi quando scrivi di Porcile a proposito della differenza tra spazio “liscio” e “striato”. Sarei curioso insomma di sapere che origine ha, criticamente, questa tua grande attenzione al rapporto tra letteratura, spazio e società.

Per rispondere alla tua domanda sono costretto a ricordare un mio saggio (e non lo faccio per autocompiacimento, odio citarmi), frutto di una ricerca precedente. Nel 2016, sempre con Mimesis, era uscito La nave, lo spazio e l’Altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, in cui, per la prima volta, avevo preso in esame il concetto di spazio nella letteratura e nel cinema. In quel caso, la fonte principale era Foucault col suo studio sulle eterotopie. Lo spazio analizzato era principalmente quello della nave, considerata dallo studioso francese come “l’eterotopia per eccellenza”, ma non solo. L’analisi si concentrava anche sugli spazi sociali che le varie navi letterarie e cinematografiche mettevano in comunicazione. Oltre a Foucault, uno studioso molto importante per quella ricerca era stato Westphal con la sua “geocritica”. Westphal ritorna – assai più di Foucault – ne Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini. Comunque, qui, più che da Michel De Certau, sono stato influenzato da Deleuze e Guattari. In Mille Piani i due studiosi contrappongono queste due tipologie di spazio: quello “striato”, sottoposto alle griglie del controllo cittadino, e quello “liscio” del deserto, abitato dai nomadi. Deleuze e Guattari, come del resto Foucault, offrono una chiave di lettura applicabile anche alla letteratura. Nella loro analisi, il concetto di spazio è associato a una categoria assai importante nella contemporaneità, quella del nomadismo, sottolineata anche da Rosi Braidotti e Michel Maffesoli. Studiare le opere letterarie (e cinematografiche) per mezzo del pensiero di filosofi e sociologi contemporanei è un’operazione che mi affascina molto, soprattutto negli ultimi tempi. Non posso, poi, non ricordare Bachtin che, in assoluto, è uno dei miei maestri: il suo concetto di “cronotopo” mi è stato molto utile per lo studio sulle navi e anche in quest’ultimo libro. Potrei, poi, ricordare Marc Augé, con i suoi studi sugli spazi della contemporaneità, e un lucido e disincantato pensatore marxista come Robert Kurz, dapprima tra i fondatori del gruppo tedesco “Krisis” e poi confluito in “Exit!”. Anche grazie al pensiero di questo studioso ho rivestito di connotazioni sociali e politiche una contrapposizione di spazi che, apparentemente, potrebbe possedere caratteristiche puramente estetiche.

Dall’insieme al dettaglio. Nei film di Pasolini, che relazione intercorre tra spazi fisici e spazi mentali? Per esempio, tra deserto inteso anche in senso metafisico (Edipo, Medea, Paolo in Teorema, il cannibale di Porcile) e città, tra gli spazi sacrali, barbarici (ovvero mitici, atemporali) in cui si muovono queste identità e l’alienazione degli spazi borghesi e industriali? Penso a L’immoralista di Gide e a Viaggio al termine della notte di Céline, più che a Lo straniero di Camus, alla mentalissima Topografia di una città fantasma di Robbe-Grillet e alle Città invisibili di Calvino. Prendo quindi in prestito una domanda che in un saggio Gianfranco Rubino pone a sé stesso: «Vi è ancora, al di là dei confini urbani (ma c’è chi ancora può identificarli?), un “fuori” che conserva le tracce della freschezza ontologica, della libertà, dell’autenticità? I luoghi e i territori mitizzati, cantati, illustrati nei romanzi della natura rimangono immuni dalla frammentazione e dall’appiattimento entropico della civiltà urbanizzata?» (Spazi naturali, spazi culturali, in Il senso dello spazio: lo spatial turn nei metodi e nelle teorie letterarie, Roma, Armando 2010, pp. 39-51).

Nei film di Pasolini i due spazi non sono separati, nettamente divisi, come se facessero parte di due dimensioni distinte. C’è sempre una sottile ibridazione fra di essi. Pensiamo all’inizio di Edipo re, quando la spazialità barbarica e ferina della Grecia antica, ‘riambientata’ in Africa, irrompe lentamente all’interno dell’ambientazione borghese del Friuli degli anni Venti, ricostruita nella campagna lodigiana. Lo spazio barbarico del deserto si insinua lentamente nello spazio borghese per mezzo del suono di un flauto, il quale rappresenta una vera e propria appendice sonora del deserto. I due ambienti, in questo film, sono messi in connessione anche dalla figura stessa di Edipo: egli è un viaggiatore, un nomade (e ritorniamo al concetto di nomadismo messo in luce da Deleuze e Guattari) che, dal deserto barbarico, si sposta fino alla Bologna degli anni Sessanta, preda del consumismo. In Porcile, poi,all’inizio del film, le parole del signor Klotz appaiono incise su una lapide marmorea, emblema del geometrico spazio borghese della villa di Godesberg (ricreata nella Villa Pisani di Stra) ma questa lapide si trova in una spazialità ferina, attraversata da borborigmi ctonii e tellurici, come se facesse parte dello spazio barbarico del Medioevo ricostruito sulle pendici dell’Etna, dove si muove il personaggio demonico e nomadico del cannibale. Penso anche a Teorema, quando il deserto irrompe come un inquietante omen all’interno degli spazi borghesi o nella cerea campagna lombarda nel momento in cui il Padre passeggia in compagnia dell’Ospite. Anche nel Viaggio al termine della notte, che hai citato, le spazialità più ‘barbariche’, se così si può dire, delle ambientazioni africane e quelle alienanti delle ambientazioni ‘moderne’ e industriali (vedi New York o Parigi) sono tenute insieme dalla figura del protagonista, Bardamu, che è anch’egli un viaggiatore, un nomade e un nuovo picaro. Anche qui è la figura del viaggiatore, del nomade, espressione dirompente di una nuova dimensione sociale contemporanea, a tenere in connessione i due tipi di spazio. Per rispondere alla domanda che riprendi da Gianfranco Rubino, direi che sì, forse è ancora possibile che molti luoghi e territori ‘mitizzati’, intatti, possano rimanere immuni dall’appiattimento entropico della civiltà urbanizzata. Per restare nell’ambito pasoliniano, mi viene in mente Petrolio, la sezione di Appunti denominata “I Godoari”. Il protagonista Carlo, dopo un’esplosione alla stazione di Torino, fra i muri semidistrutti trova il varco per entrare in una sorta di altra dimensione, uno spazio dominato da una campagna intatta, caratterizzato da prati e boschi. Anche se, in modo graduale, questi luoghi incontaminati si trasformano nella periferia di Torino, essi continuano a sussistere in una dimensione quasi mitica, lontana, intoccabile. Anche nella narrativa contemporanea possiamo incontrare la sopravvivenza di questi spazi mitici: penso a due romanzi distopici di Alessandro Bertante, Nina dei lupi e Pietra nera. Nel primo, il paese dove vive Nina riesce a mantenersi come uno spazio intatto all’interno della catastrofe che ha invaso il resto del mondo; nel secondo, una dimensione mitica si allarga all’intera società del futuro devastata dalla catastrofe: ad esempio, la natura e la vegetazione si sono riappropriate della città di Milano, che ha perduto definitivamente la sua dimensione moderna, industriale, alienata. Oppure, potrei pensare a Bambini bonsai, di Paolo Zanotti, in cui i bambini, messisi in viaggio dalle loro città del futuro sporche e inquinate, riescono ad approdare a una nuova dimensione mitica e fiabesca. Se le foreste mitiche in cui viveva Cosimo nel Barone rampante di Calvino, alla fine, sono state completamente distrutte dall’uomo, in Bambini bonsai, dopo la distruzione, ci sono ancora la possibilità e la speranza di incontrare nuovi spazi incontaminati.

Ora più che altro una mia curiosità. In un’intervista del 1972 (qui) Pasolini afferma di considerare Pavese «uno scrittore medio». Ho pensato per certi aspetti all’angoscia dell’influenza di cui parla Bloom, nonostante la loro diversità. Entrambi hanno una forte mitografia personale, sono scribi mitici; per quanto Pasolini si sia esposto personalmente, nel discorso pubblico, e Pavese abbia invece più che altro agito editorialmente, entrambi sono stati accusati di sconfinamento in campi che non erano di loro pertinenza, oppure di una militanza insufficiente o sbagliata (a volte l’accusa è venuta da esponenti dello stesso partito, o comunque da intellettuali di sinistra, come è accaduto per Pavese, strigliato per esempio da Fortini); entrambi si sono mostrati sensibili al richiamo cinematografico – anche Pavese, cineasta già dalla giovinezza, negli ultimi anni della sua vita scriverà alcune sceneggiature (destinate a rimanere soltanto sulla carta, allo stato di bozze). D’accordo, passa una generazione: da una parte il periodo della Resistenza, dall’altra gli anni Cinquanta e il miracolo economico. Sono temperie culturali diverse. Diciamo che, se Pavese per altre ragioni non ha resistito al suo tempo, Pasolini è stato (fino alla tragica morte) un sopravvissuto. C’è un’espressione pasoliniana che mi fa pensare anche a Pavese: «vocazione al martirio». Se per Pavese il mito era soprattutto quello del ritorno, della seconda volta, cos’era per il Pasolini regista? Che accezione attribuisce a termini come ‘primitivo’, ‘mitico’, ‘puro’? Che rapporto intrattiene, insomma, con la civiltà arcaica e contadina? I deserti africani e le periferie romane, in qualche modo, sono il corrispettivo delle Langhe? Non credo. Per entrambi, però, mi pare di capire che da una parte c’è il mythos, dall’altra il logos. Penso anche alle loro fonti comuni. Su tutti, tre nomi: James Frazer, Lucien Lévy-Bruhl e Mircea Eliade. A margine della domanda riporto un passo che citi analizzando Medea. Parla il Centauro, e salvo lo stile sembra quasi un personaggio dei Dialoghi con Leucò: «Forse mi hai trovato, oltre che bugiardo, anche troppo poetico. Ma che vuoi, per l’uomo antico i miti ed i rituali sono esperienze concrete che lo comprendono anche nel suo esistere corporale e quotidiano. Per lui la realtà è un’unità talmente perfetta che le emozioni che egli prova, mettiamo, di fronte al silenzio di un cielo d’estate, equivale in tutto alla più intensa esperienza personale di un uomo moderno».

Penso che la differenza fondamentale fra Pasolini e Pavese, nella concezione del mito, stia nel fatto che per il primo, la dimensione mitica può entrare nella Storia, è collegata anche al presente e può agire su di esso. Per Pavese, invece, essa appare lontana, legata al tempo dell’infanzia e lo stesso paesaggio ‘mitico’ delle Langhe rimane lì, cristallizzato e fermo come uno sfondo dai contorni sacrali. Pensiamo a Edipo re: Edipo, dal mondo mitico, penetra nella Storia, nella contemporaneità della Bologna degli anni Sessanta. Edipo è il viaggiatore mitico e ‘demonico’ che permette la comunicazione fra i due universi. Perciò, quello del mito, per Pasolini, non è un universo chiuso e lontano ma è in comunicazione con la contemporaneità sconsacrata. Ugualmente, la civiltà arcaica e contadina continua a sussistere nel mondo industriale e moderno, nello stesso identico modo in cui, in Medea, il centauro sconsacrato dell’età adulta continua a sussistere a fianco di quello sacro dell’infanzia. In altre parole, credo che, secondo Pasolini, la natura continui a rimanere “ierofanica” anche per l’uomo adulto, non solo (quasi pascolianamente) per il bambino. Lo afferma lui stesso nell’intervista a Jean Duflot dal titolo Il sogno del centauro: fin da bambino, la natura non aveva mai cessato di apparirgli “ierofanica”, espressione che dichiara di aver ritrovato nel Trattato di storia delle religioni di Mircea Eliade. Credo che, fondamentalmente, in Pasolini il mythos e il logos non siano così nettamente separati come, allo stesso modo, non sono separati i due spazi: fra di essi, come abbiamo visto, ci sono sempre momenti di ibridazione. Una ibridazione che, del resto, si può incontrare anche nel senso profondo di questa frase pronunciata dal centauro: “solo chi è realistico è mitico e solo chi è mitico è realistico”, in cui il “mitico” e il “realistico” sembrano quasi coincidere. Come ho scritto nel libro, lo stesso spazio della laguna di Grado in cui avviene l’educazione mitica di Giasone ad opera del centauro appare trasformato in seguito al divenire adulto del personaggio: esso non possiede più le caratteristiche arcaiche, mitiche e magiche legate al racconto sacrale del centauro (non dimentichiamo che mythos significa “racconto”) ma appare più freddo, cereo, solcato dalla rigidità geometrica della linea dell’orizzonte. È cambiato ma, anche, in un certo senso, è rimasto lo stesso. Esattamente come succede per i centauri, anche lo spazio sacro continua a sussistere all’interno dello spazio desacralizzato. È indubbio che, poi, per Pasolini, “mitico” fosse sinonimo di “puro”, “barbaro”, “primitivo”, arcaico” ed è per questo che egli intravedeva connotazioni mitiche anche nelle borgate romane in quanto luoghi ancora legati, nella sua ottica, a un primitivo e innocente universo contadino.

Ancora una domanda sul cinema pasoliniano, a partire da uno spezzone di un film di Godard (qui) del tutto fuori contesto, a cui però ho pensato durante la lettura. Mi ha interessato parecchio la sottotrama dei silenzi, così presenti da un film all’altro. Che funzione hanno? Che ruolo hanno rispetto alle parole? In Edipo re il silenzio viene interrotto soltanto quando il protagonista racconta a Polibio e Merope il sogno che lo ha angosciato; il Pietro di Teorema, come scrivi,ti «ricorda qualche personaggio cinematografico dei vecchi film muti», mentre l’Ospite insidia il silenzio borghese della famiglia e le sue «geometrie», presentandosi tuttavia «come un personaggio muto o comunque che parla pochissimo», «in quanto capace di esprimersi per mezzo di un lin­guaggio non verbale» (scrivi che «i monologhi dei personaggi sono perciò composti da parole contemporaneamente tragiche e magiche, rivolte ad una sorta di sciamano che ascolta in silenzio dopo essersi espresso mediante il suo linguaggio sacrale, l’eros»; l’Ospite, invece, il «giovane dio sacro», tace e ascolta: «di fronte alla parola tragica, segno della irrevocabile tragedia che ha colpito la bor­ghesia, oppone un silenzio sacrale e la forza dello sguardo, uno sguardo intenso e quasi annientatore esso stesso»). Per Porcile, sottolinei giustamente che «i due spazi del film sono connotati da dimensioni sonore estre­mamente diverse: se all’interno delle geometrie della villa di Gode­sberg domina una vuota ripetizione in serie della parola, contratta nei suoi rutilanti ritmi dominati da macabre espansioni giocose, l’ambientazione del medioevo è connotata da un arcaico silenzio, rotto soltanto, come già visto, dai suoni ferini e tellurici della na­tura. In opposizione all’apoteosi di un logos ripetuto e coercitivo come in una catena di montaggio, espanso fino al dissolvimento semantico, incontriamo il silenzio e una parola che ancora si espande in rito, in mistica ripetizione, in espressione sonora del mito». E ancora, più avanti: «Se la parola ripetuta in serie, anche nelle sue più grottesche dira­mazioni ed estensioni, indica potere e dominio, il silenzio arcaico che si estende sull’ambientazione del medioevo è quasi l’espansio­ne di un universo sacro e fuori dal tempo, attraversato dalle espres­sioni più dirompenti della natura. Il silenzio dei contestatori è una opposizione al controllo esercitato dal potere sulla stessa parola: è proprio in base alla parola, infatti, secondo Foucault, che la logica di dominio separa la normalità dalla follia (la parola del folle non viene neanche ascoltata e presa in considerazione)».

Veramente una domanda interessante, e interessante anche il punto di partenza, il suggestivo spezzone del film di Godard che mi ha fatto venire in mente un altro film molto diverso, Pulp Fiction, nel momento in cui Uma Thurman e John Travolta, seduti al tavolo di un bar, discutono sulla assurda necessità di dover sempre parlare (una scena che Tarantino, ripensandoci, sembra aver costruito quasi come una citazione di quella di Godard). I silenzi sono molto importanti in questa fase del cinema pasoliniano (meno, direi, nei suoi primi film). Agli esempi e ai personaggi che hai ricordato aggiungerei anche Medea che è una figura estremamente silenziosa (pur, paradossalmente, essendo interpretata da una celeberrima cantante lirica come Maria Callas). Si potrebbe anche pensare al personaggio diabolico, forse il diavolo in persona, interpretato da Franco Citti ne I racconti di Canterbury. In ogni caso, il silenzio sembra la prerogativa di personaggi demonici e sacrali: l’Ospite di Teorema (definito un “angelo muto” da Roland Barthes),il cannibale di Porcile, Medea, lo stesso Edipo, soprattutto nei momenti finali del film, silenzioso e angosciato suonatore di flauto. Bisogna comunque ricordare che Edipo, nelle vicende ambientate a Tebe, era stato anche il personaggio conduttore di una parola dalla connotazione teatrale: una parola che sembra proprio appartenere al “teatro di Parola” pasoliniano, secondo le idee che l’autore esprimerà di lì a poco nel Manifesto per un nuovo teatro. Il silenzio appartiene all’universo arcaico, primitivo, “barbaro”, sacrale; la parola allo sconsacrato mondo della borghesia. Il silenzio fa parte del mythos perché, alla fine, esso non cerca di spiegare niente: è una pura rappresentazione. I personaggi silenziosi parlano un linguaggio puramente corporeo, quasi erotico, come l’Ospite di Teorema, non vogliono spiegare niente per mezzo della razionalità del linguaggio. I personaggi che parlano, e che parlano tanto, sembrano invece quasi annullare la loro dimensione corporea per lasciare spazio alla voce, alla spiegazione razionalizzante. Ecco perché l’Ospite e il cannibale di Porcile, personaggi silenziosi,sono profondamente corporei mentre i borghesi, nello stesso Porcile, connotati da un eccesso di parole,sembrano quasi delle marionette decorporeizzate. Il silenzio, poi, si carica di maggiore significato grazie a un dirompente suono della natura: il vento. I deserti barbarici di questi film sono sempre solcati dal vento: gli spazi brulli in cui si muove Edipo, il deserto di Teorema, le lande di Porcile, i sentieri attraversati da Medea. Il vento, in questi film pasoliniani, ha un ruolo molto importante, dalle valenze quasi magico-sacrali, ed è sempre associato al campo semantico del silenzio. Penso che Pasolini, in questo, si sia ispirato al cinema di Fellini. Anche in Fellini il vento, sempre rivestito di connotazioni quasi magiche, ha un’importanza fondamentale. Basti ricordare diversi momenti dei Vitelloni o il finale della Dolce vita, quando Marcello e la ragazza, sulla battigia, non riescono a capirsi a causa del rumore del vento. Anche le ambientazioni del Fellini-Satyricon, non da ultimo le lande desertiche presenti nel film, sono costantemente attraversate dal vento. Qui, tra l’altro, è presente un personaggio silenzioso e dai tratti demonici: Gitone, il giovane innamorato di Ascilto. Come ha scritto Michel Chion, egli pronuncia una sola parola in tutto il film “con una voce cupa ed oscena”. Si può ricordare, inoltre, che il vento soffia incessantemente anche nel Casanova di Federico Fellini (un film che, purtroppo, Pasolini non ha potuto vedere, essendo del 1976) e riesce a far diventare silenzioso e meditativo il protagonista Giacomo Casanova che, nel corso della narrazione, si caratterizza costantemente come l’alfiere di una parola dai tratti iperbolici e teatrali.