Resa dei conti con il Novecento
Hannah Arendt e la banalità del male
Hannah Arendt oltre ad aver teorizzato temi di filosofia politica, ha dato il suo contributo anche nel campo dell’etica, analizzando come il male sia in grado di distruggere ogni forma democratica libera e partecipativa.
Questo tema del male, tanto più potente e letale per le istituzioni politiche quanto per la vita di tutti i cittadini la Arendt iniziò a proporlo quando fu inviata dal ” the New Yorker “a Gerusalemme per commentare il processo al gerarca nazista Adolf Eichmann accusato di crimini contro l’umanità.
Il ritratto che la filosofa delineerà di questa persona sarà quello di un “uomo banale“. E sarà proprio questa affermazione che genererà grandi polemiche sui principali quotidiani in quanto era considerato del tutto inaccettabile l’accostamento tra la banalità ed il male, soprattutto se in relazione agli eventi più tragici che hanno cambiato in maniera irreversibile la storia e la stessa autopercezione dell’occidente ovvero il nazismo e gli stermini di massa.
L’autrice, lungi dall’accettare tale critica ideologica avverti l’importanza di giustificare in primo luogo a se stessa, e poi al resto dell’umanità, la concettualizzazione della ” banalità del male ” e lo farà attraverso un ciclo di lezioni che verranno successivamente trascritte e pubblicate in un libro intitolato ” Alcune questioni di filosofia morale” . Da questo libro emerge che il problema fondamentale è il significato che intendiamo dare all’etica ed alla morale le quali, o sono concepite come delle auto immunizzazioni nei confronti di attività malvagie, e in questo caso sono fondamentali il pensare e il ricordare, oppure sono concepite come “ethos e mores”, usi e costumi, adottati di volta in volta a seconda delle circostanze (come si possono cambiare le maniere di buona educazione a tavola).
Paradossalmente sembra proprio che durante il nazismo sia stata la seconda opzione a prevalere sulla prima ovvero l’etica e la morale in quel periodo sono state considerate come usi e costumi da adottare di volta in volta al pari di un vestito che si può indossare, cambiare o gettare una volta rovinato. In tale contesto il pensare, attività ” percettiva” che si collega sempre a qualche esperienza che in qualche modo ci fa ” pensare e ricordare”, pare non sia stata mai presa in considerazione nel fare il male: il miglior modo per il criminale per non farsi scoprire infatti e’ dimenticarsi di ciò che ha fatto e non pensarci più.
I peggiori crimini perpetrati nel ‘900 secondo l’autrice non si devono a persone capaci di guardarsi allo specchio e di non dimenticare, come coloro che hanno attuato delle forme di pentimento o redenzione. Al contrario invece possiamo dire che il ” male totale ” impersonificato in maniera esemplare dal nazismo, non è stato attuato grazie a quelle poche menti “geniali” e “diaboliche ” pianificatrici dell’inferno in terra, bensì grazie a i criminali peggiori che sono coloro i quali non ricordano, semplicemente perché non hanno mai pensato.
Il peggior male quindi non è costituito dalle poche menti criminali che hanno ideato i sistemi del male, ma dalle centinaia di persone “banali” che hanno avallato tutti i loro piani, accettando tacitamente , senza pensare e
ricordare, ciò che stava avvenendo. Per questo il vero male non è il “male radicale”, ma è il male senza radici, il male banale, che crea il terreno fertile e l’avallo ideologico di piani criminali che senza il sostegno di milioni e milioni di cittadini non sarebbero mai potuti accadere.
Per questo il male è tanto più banale quanto più onnipervasivo in quanto senza questa caratteristica non potrebbe dilagare. La resa dei conti col ‘ 900, secolo tragico per eccellenza, presuppone una resa dei conti dell’ uomo con se stesso e con il suo lato più oscuro.
Articolo a cura di Tommaso De Leo